«Mi
dimentico di me, della mia solitudine, della mia magrezza grassa.
venerdì 27 marzo 2015
mercoledì 25 marzo 2015
Penne e tapparelle: la scrittura nel dosatore del detersivo
Di come ritagliarsi un posticino da scrivente, fra i mille mestieri della giornata.
Prendilo, arraffalo e poggiatelo sulle gambe. Il portatile è finalmente tuo!
Lo apri. Con mano tremante sul pulsante di avvio. Clicchi, fai, inizi, controlli, ancora incredula di avere a disposizione quell'oretta tutta per te.
Non ti par vero.
Hai una casa da portare avanti, una famiglia di lavatrici (o una lavatrice di famiglia) da sistemare.
E poi c'è la polvere da tirare, l'orto da avviare. Il giardino.
Oddio, ho detto giardino? Quel manto informe di sempreverdi fili d'erba che arrancano a sfidare il cielo, pure nel freddo ghiacciato di dicembre e gennaio?
Spaghetti pallidi che, nonostante l'anemia, svettano fino al firmamento, rovinando l'uniformità della restante copertura erbosa che invece se ne sta in silenzio, e soprattutto ferma, ad aspettare la primavera.
Sì, ci sono quei ciuffi di fili spregevoli, sempre, e sono appunto verdi. Per questo motivo li chiamo sempreverdi (a volte la mia banalità raggiunge limiti di guardia, ma non posso farci niente).
La soluzione però è presto trovata: fa freddo, fuori si gela. Ma che ti affacci a fare verso il giardino? Occhio non vede, tosaerba non duole.
Dunque dicevo, mentre assapori in silenzio quel sottile godimento che solo una oretta di requie dagli affanni casalinghi può darti, ti capita all'improvviso di tornare con la mente a considerare le faccende che soltanto dopo la chiusura della tua connessione ti imponi di sbrigare.
Ma tu hai l'occhio vizioso, ormai è risaputo. Sì, l'occhio avvezzo, e dunque degenerato a controllare di sfuggita quel che c'è da fare fra le mura della tua candida dimora. E, purtroppo, pure fuori.
Per ovviare al tuo difetto, ti obblighi, mi obbligo, a guardare in giro il meno possibile, onde evitare di trovare panni, sporchi e puliti, accatastati da qualche parte, giocattoli dimenticati nei posti più improponibili, calzini appesi alle maniglie della porta, a mo' di stendardo di gloria per un duello da poco sostenuto. Quello compiuto ieri sera, per il lavaggio dei piedi, da parte del proprietario dei calzini. Con la sottoscritta.
Insomma dicevo, cerchi di non pensarci, ti sforzi di concentrarti nei tuoi affari di giro pomeridiano sul Web. Ci sarebbe la posta da controllare. Ah, sì, poi c'è quella notifica. Vediamola.
Ma non ti eri ripromessa di scrivere un piccolo brano del tuo nuovo libro? In mezz'ora abbondante potresti almeno imbastirlo.
Se non fosse che, della mezz'ora rimasta, una decina di minuti ti ha già fatto ciao ciao.
Non ti perdi di animo. In fondo la cucina può sempre aspettare. Certo il ragù sarà meno ristretto, ma pazienza. E, di sicuro, per cena non ci sarà un contorno di verdura cotta ma i miei conviventi, familiari mangianti, non possono avere tutto da una che, seppur per diletto, ama scrivere.
La scrittura, in fondo, viene prima. Perbacco. Sei o non sei, sono o non sono, un'intellettuale?
D'accordo, dicevo per scherzare.
Sì, ma bando alle chiacchiere, l'ora sta per scadere. Avvii il programma, inizi a digitare. Una. Due. Tre. Meraviglia! Hai appena messo insieme un bel periodo generoso di vocaboli, traboccante di proposizioni. Brava.
Il ditino è lì, ligio sulla tastiera, quando, dopo un apostrofo ben assestato e una virgola posizionata ad arte, si blocca.
Guarda che hai scritto la parola "giardino". Lo so che l'avevi utilizzata per l'incontro tra i tuoi protagonisti ma non avresti dovuto farlo!
Ora quella, la parola appunto, ha fatto pericolosamente innescare un vorticoso giro di pensieri: giardino ha richiamato fiori ma, subito dopo, ha sollecitato l'idea del prato verde.
Il manto d'altronde ha evocato il concetto di ordine, omogeneità. E da qui ai lunghi, seppur radi, fili d'erba maleducati è un passo.
E dire che tu in giardino avresti voluto solo che i personaggi del tuo libro si scambiassero un tenero e inutile bacio!
Non si può più star tranquilli, nemmeno in un romanzo.
Giardino allora uguale a pensiero all'esterno: lasci la tastiera, sposti la tenda. Butti poco lontano l'occhio. Lo sguardo si incanala nell'omogeneità generica, poi intralcia nello scomposto rimestio di ciuffi impenitenti.
Ti accorgi di come questi, a differenza dei loro colleghi diligenti, vogliano ad ogni costo sottolineare la loro rivolta ai cicli vitali e di riposo a cui madre natura ha pure posto una regola da sempre. Quella del tipo: a gennaio ci si ferma, l'erba non cresce e dunque il giardino rimane tutto sommato a livello dell'ultima rasatura, di un colore apatico, tendente al nocciolino asfittico, ma pur sempre al limite della ricrescita.
E invece no, loro hanno la faccia tosta di brillare pure, quando quel solicello invernale pensa bene di rovinare la tua tranquillità di giardiniera impenitente.
Ormai l'ora è passata da un pezzo. Decidi che è arrivato il momento di tirare fuori dal ripostiglio il tosaerba. Lo farai più tardi, ora hai da pulire quell'angolo che avevi tralasciato. Lo straccio è pronto. Le verdure sono da mondare. L'asse da stiro è rimasto ripiegato per troppo tempo.
Svelta. Alzati. Lavora.
No, non ho detto allungati sul divano e apri di nuovo il portatile. Non hai mica ore a disposizione. Non puoi organizzare tempo libero. Non hai momenti per concentrarti.
Quelle sono cose da intellettuali.
Concetta D'Orazio
martedì 24 marzo 2015
Marco
«Si passa una mano tra i pochi capelli, quasi ad accertarsi di averne conservati ancora alcuni, per questa mattina. Tira una specie di sospiro di sollievo, tra sé e sé, quando capisce di averli in testa ma cerca di non darmelo a vedere. [...]»
La fragranza dell'assenza
venerdì 20 marzo 2015
Editing. Un lavoro necessario?
(Articolo completo)
Inutile ripeterlo: oggi tutti sappiamo scrivere.
Inutile ripeterlo: oggi tutti sappiamo scrivere.
Non aggiungo i consueti punti interrogativi, a coppie di due alla volta, o, peggio ancora, terni di esclamativi, a sottolineare che ho appena fatto una delle mie solite battute.
Ma torniamo a noi.
Dunque la verità è questa: tanti azzardano con la penna a comporre storie, più o meno entusiasmanti, più o meno lunghe, più o meno buone.
Tutta la mia benedizione a questi molti, fra cui mi colloco anche io. Perché dovremmo rinunciarci? Lo avevo già detto (qui) ed è inutile che lo ribadisca ancora.
La questione si fa difficile quando tra tutti i "molti" di prima occorrerà fare una selezione fra le opere infinite che loro metteranno a disposizione di pubblico leggente.
Se tutti sappiamo scrivere, non è detto che tutte le opere (romanzi, racconti) siano perfette.
Non lo sono perché non basta una penna sola per segnare una compiutezza del libro. Affinché un testo risulti ottimamente composito e naturalmente coerente, è necessaria l'interazione fra chi ha messo in atto lo scritto (autore) e chi ha occhi esterni al prodotto. Non mi riferisco ora al controllo di piccoli errori che possono essere di battitura o di disattenzione. Neppure alludo ad imprecisioni lievi in senso grammaticale. Per questi, è necessaria una visione da parte di una persona che abbia un allenamento adeguato a snidare eventuali sgrammaticature o segni fuori posto.
L'osservazione altra, chiamiamola così, a cui un autore dovrebbe sottoporre il suo testo, è necessaria al fine di un miglioramento del libro sotto diversi punti di vista che, per questioni di spazio e di tempo, riassumo in:
- questione linguistica;
- coerenza cronologica e di ambientazione;
- gestione della linearità e scorrevolezza del testo;
- rispondenza dei caratteri e delle caratteristiche dei personaggi;
- adeguamento del testo ad eventuali (sottolineo eventuali) necessità di pubblico a cui deve essere offerta l'opera;
- eliminazione di "materiale" inutile che appesantisce e rende difficoltosa la comprensione di tutto il testo.
Per non dilungarmi ulteriormente sulle diverse proprietà del lavoro di editing, vi rimando ad un mio precedente brano (qui).
Dunque, fatte queste premesse, chiediamoci: è proprio necessario sottoporre il testo ad un "ripensamento"?
Dunque, fatte queste premesse, chiediamoci: è proprio necessario sottoporre il testo ad un "ripensamento"?
Abbiamo bisogno di affidarci ad un editor?
Quando si affronta questo dilemma, solitamente, nasce spontanea un'altra questione: è cosa solo moderna tutto questo rimestar le carte, aggiungere, tagliare, assottigliare, cambiare di titolo, aggiustare il finale? Come facevano i "grandi" del nostro illustre passato letterario?
Per alcuni la risposta potrebbe scaturire velocemente: i nomi gloriosi della letteratura facevano tutto da soli, a differenza di alcuni (tutti?) autori moderni, che hanno bisogno di una figura professionale che li accompagni nella redazione, arrivando addirittura a capovolgerne alcuni tratti.
Sappiamo bene che così non è.
La storia della letteratura, come raccontano i miei adorati testi universitari, avalla piuttosto la tesi che le grandi opere letterarie sono frutto di contributi intellettuali, diretti e indiretti, di disquisizioni e carteggi.
E da tutto questo: quante correzioni, cambiamenti in itinere e conclusivi!
Certo, a seconda del periodo storico in cui questi libri nacquero, il "collaboratore" dell'autore non si chiamava editor, ma l'utilità e la convenienza della sua opera, così come quella di tanti professionisti moderni, non possono essere messe in discussione.
Quando si affronta questo dilemma, solitamente, nasce spontanea un'altra questione: è cosa solo moderna tutto questo rimestar le carte, aggiungere, tagliare, assottigliare, cambiare di titolo, aggiustare il finale? Come facevano i "grandi" del nostro illustre passato letterario?
Per alcuni la risposta potrebbe scaturire velocemente: i nomi gloriosi della letteratura facevano tutto da soli, a differenza di alcuni (tutti?) autori moderni, che hanno bisogno di una figura professionale che li accompagni nella redazione, arrivando addirittura a capovolgerne alcuni tratti.
Sappiamo bene che così non è.
La storia della letteratura, come raccontano i miei adorati testi universitari, avalla piuttosto la tesi che le grandi opere letterarie sono frutto di contributi intellettuali, diretti e indiretti, di disquisizioni e carteggi.
E da tutto questo: quante correzioni, cambiamenti in itinere e conclusivi!
Certo, a seconda del periodo storico in cui questi libri nacquero, il "collaboratore" dell'autore non si chiamava editor, ma l'utilità e la convenienza della sua opera, così come quella di tanti professionisti moderni, non possono essere messe in discussione.
Pensiamo a Manzoni, per dire, che, secondo me, rappresenta proprio un esempio di autore che si avvale dei consigli di altri che, all'epoca, non si dicevano editor, ma che diedero un contributo, diretto e indiretto, alla nascita del capolavoro.
Ebbene il romanzo dell'illustre Alessandro è la dimostrazione di come il riesame di un'opera debba essere condotto servendosi della collaborazione di altre personalità o comunque figure professionali adeguate.
La redazione del suo romanzo storico, dal Fermo e Lucia ai definitivi Promessi Sposi, fu il frutto di un'interazione costante con altre persone.
Conversazioni e carteggi ne sono la prova.
Insomma, l'autore arrivò alla edizione finale, avvalendosi di diversi "nutrimenti" critici e consigli di varia natura, seppur in variegata modalità e differente misura.
Anche in base a quelli, e non soltanto per considerazioni e ripensamenti personali, mutò la natura del suo testo, per alcuni aspetti.
Manzoni compì rivisitazioni e aggiustamenti continui, potendo contare sulla collaborazione di validi intellettuali.
Abbiamo detto collaborazione?
E cosa fa l'autore di oggi? Si avvale dell'assistenza di una figura professionale che ora ha un nome: editor.
Un tempo i "revisori" erano individuati nella cerchia di persone ritenute capaci di consigliare.
Oggi esiste la figura professionale vera e propria, l'editor appunto, che svolge il suo lavoro a pagamento. Il risultato è sempre lo stesso: lavorare insieme ad altri, al fine di ottenere un'opera compiuta e perfetta, sotto diversi punti di vista (coerenza, lingua, etcetera).
Ed eccomi infine a fornire una risposta alla domanda iniziale: è necessario affidare la supervisione di un'opera a uno o più revisori?
Saper scrivere bene, l'ho appena detto, non è sufficiente per produrre un'opera perfetta. Chi scrive in solitudine non è più scrittore di chi cerca i consigli di altre persone, arrivando addirittura a ripensare alcune caratteristiche di quanto ha prodotto (libro).
Insomma, non si diventa automaticamente meno "grandi", a lasciarsi aiutare.
Anzi, l'aiuto esterno è importantissimo al fine di produrre un'opera "grande" appunto.
Quando la consulenza in termini di editing è assicurata dal patrocinio di una casa editrice, l'operazione, se vogliamo, diventa più semplice. Si viene seguiti, consigliati, incoraggiati.
Problemi diversi deve risolvere lo scrittore che si auto-pubblica (indie) che, tra le altre cose, deve affrontare pure la ricerca di un collaboratore, figura capace di affiancarlo, nel difficile cammino che porterà alla "produzione" dell'opera. Occorrerà quindi riuscire a trovare una persona con cui entrare in primo luogo in sintonia.
Per ricollegarmi alla figura del collaboratore nel corso dei secoli, vi lascio una domanda: forse che fare editing oggi non equivale ad uno scambio di vedute, a volte contrapposte, spesso antitetiche, attraverso un carteggio digitale?
Concetta D'Orazio
Ebbene il romanzo dell'illustre Alessandro è la dimostrazione di come il riesame di un'opera debba essere condotto servendosi della collaborazione di altre personalità o comunque figure professionali adeguate.
La redazione del suo romanzo storico, dal Fermo e Lucia ai definitivi Promessi Sposi, fu il frutto di un'interazione costante con altre persone.
Conversazioni e carteggi ne sono la prova.
Insomma, l'autore arrivò alla edizione finale, avvalendosi di diversi "nutrimenti" critici e consigli di varia natura, seppur in variegata modalità e differente misura.
Anche in base a quelli, e non soltanto per considerazioni e ripensamenti personali, mutò la natura del suo testo, per alcuni aspetti.
Manzoni compì rivisitazioni e aggiustamenti continui, potendo contare sulla collaborazione di validi intellettuali.
Abbiamo detto collaborazione?
E cosa fa l'autore di oggi? Si avvale dell'assistenza di una figura professionale che ora ha un nome: editor.
Un tempo i "revisori" erano individuati nella cerchia di persone ritenute capaci di consigliare.
Oggi esiste la figura professionale vera e propria, l'editor appunto, che svolge il suo lavoro a pagamento. Il risultato è sempre lo stesso: lavorare insieme ad altri, al fine di ottenere un'opera compiuta e perfetta, sotto diversi punti di vista (coerenza, lingua, etcetera).
Ed eccomi infine a fornire una risposta alla domanda iniziale: è necessario affidare la supervisione di un'opera a uno o più revisori?
Saper scrivere bene, l'ho appena detto, non è sufficiente per produrre un'opera perfetta. Chi scrive in solitudine non è più scrittore di chi cerca i consigli di altre persone, arrivando addirittura a ripensare alcune caratteristiche di quanto ha prodotto (libro).
Insomma, non si diventa automaticamente meno "grandi", a lasciarsi aiutare.
Anzi, l'aiuto esterno è importantissimo al fine di produrre un'opera "grande" appunto.
Quando la consulenza in termini di editing è assicurata dal patrocinio di una casa editrice, l'operazione, se vogliamo, diventa più semplice. Si viene seguiti, consigliati, incoraggiati.
Problemi diversi deve risolvere lo scrittore che si auto-pubblica (indie) che, tra le altre cose, deve affrontare pure la ricerca di un collaboratore, figura capace di affiancarlo, nel difficile cammino che porterà alla "produzione" dell'opera. Occorrerà quindi riuscire a trovare una persona con cui entrare in primo luogo in sintonia.
Per ricollegarmi alla figura del collaboratore nel corso dei secoli, vi lascio una domanda: forse che fare editing oggi non equivale ad uno scambio di vedute, a volte contrapposte, spesso antitetiche, attraverso un carteggio digitale?
Concetta D'Orazio
venerdì 13 marzo 2015
Riflessioni a tempo - Scuse
Scuse confuse nascondono sempre difetti occultati.
A me piace la limpidezza.
A me piace la limpidezza.
Riflessioni a tempo - Gentilezza
Gentilezza non autorizza maleducazione.
Gentilezza si riceve e si apprezza. Non si pretende.
mercoledì 11 marzo 2015
Riflessioni a tempo - L'azione
Gambe e piedi sono utili per l'azione, soprattutto quando sono gambe e piedi degli altri.
Il latino: per favore non declinatelo, in italiano.
Che, detto da me, pare proprio una battuta.
E infatti è una freddura.
E infatti è una freddura.
Lo avevo scritto qualche tempo fa: la lingua latina, è incredibile, vive oggi più di ieri. (Trovate l'articolo qui).
Quanti vocaboli appartenenti ad epoca classica, sono passati ad essere di uso comune. A volte li utilizziamo senza quasi renderci conto della loro esatta provenienza e del loro giusto significato. Tante parole sono ormai diventate così familiari che siamo convinti di poterle ricondurre all'uso tutto moderno, senza tener conto che, in realtà, sono antiche, antichissime.
Accade di parlare per sentito dire, senza essere consapevoli del valore di alcuni termini.
Il che non è abitudine da condannare, per carità. In fondo neppure delle parole moderne conosciamo bene l'etimologia, o almeno non sempre, ma le adoperiamo con sicurezza perché così ci hanno insegnato. Così abbiamo sentito, letto e accettato.
Se sul significato delle parole della lingua corrente, tutto sommato, possiamo disporre oggi di una certa tranquillità, non altrettanto possiamo dire dell'accezione di voci che provengono direttamente dall'antenato del nostro idioma, il latino appunto.
A volte troviamo vocaboli utilizzati in maniera inadeguata, relativamente al loro originario significato. Altre volte è impropria la declinazione che si fa oggi di morfemi che ormai dovrebbero essere utilizzati in maniera cristallizzata, dal momento che la loro declinazione non è più necessaria nella nostra lingua.
Relativamente all'indeclinabilità di termini utilizzati ai giorni nostri, occorre ribadire che la lingua latina non prevedeva l'utilizzo degli articoli, fondamentali in italiano, per distinguere il genere e il numero delle parole. Anche per questo motivo, ma non solo, si aveva la necessità di comprendere il senso di una parola, a partire dalla desinenza. Da qui derivava dunque l'esigenza di declinare, necessità che oggi scompare.
Relativamente all'indeclinabilità di termini utilizzati ai giorni nostri, occorre ribadire che la lingua latina non prevedeva l'utilizzo degli articoli, fondamentali in italiano, per distinguere il genere e il numero delle parole. Anche per questo motivo, ma non solo, si aveva la necessità di comprendere il senso di una parola, a partire dalla desinenza. Da qui derivava dunque l'esigenza di declinare, necessità che oggi scompare.
Per comprendere bene la questione, facciamo qualche esempio.
Ho commesso un lapsus.
Eri davvero emozionato, quanti lapsus hai commesso, oggi!
Nel primo caso, se avessi voluto declinare la parola lapsus, avrei dovuto metterla all'accusativo singolare, lapsum, visto che è in funzione di complemento oggetto ma ho lasciato la parola irrigidita per due motivi.
1. La lingua italiana non prevede l'utilizzo di una diversa forma di desinenza delle parole, a parte nella differenza fra singolare e plurale.
2. I vocaboli in latino devono essere usati in maniera statica, cioè senza subire declinazione, essendo termini appartenenti ad una lingua diversa dalla nostra.
E pur se il latino è nostro nonno, per così dire, l'accostamento della desinenza dei casi e dell'articolo mi pare davvero eccessivo e ridondante.
Ricordate bene: eccessivo e ridondante.
Scriviamo in italiano, abbiamo i nostri articoli (ma anche le nostre preposizioni e tanta altra roba), per quale motivo dobbiamo ostinarci a mettere pure la desinenza giusta?
In lingua italiana una parola straniera (o "vecchia) rimane statica.
Consideriamo anche altro.
Spesso in italiano utilizziamo parole in latino che, in realtà, in origine erano voci verbali.
Questo vale, ad esempio, per deficit (terza persona singolare, indicativo presente dal verbo deficio), la cui traduzione letterale sarebbe: si stacca, si separa, viene meno. Comprendiamo bene come l'uso in italiano di deficit è assolutamente sostantivato.
Per questi motivi, ripeto, è da evitare la declinazione.
Hai ricevuto le notifiche del forum?
In questo caso, potendo contare in italiano sulla preposizione articolata, ho utilizzato la forma statica della parola, forum appunto, di sicuro non l'originario genitivo singolare fori.
Non ardirei mai a declinare in italiano horror, iunior, curriculum e così via.
È importante tenere presente che taluni termini in latino, declinati, potrebbero anche assumere un senso improprio. È questo il caso di curriculum, appunto.
L'originario significato di curriculum è quello di corsa. In senso figurato il curriculum diventa il corso, della vita e/o degli studi (vitae/studiorum).
Cosa accadrebbe se adoperando questo vocabolo oggi decidessimo di renderlo al plurale, curricula?
Anche in questo caso è necessario un esempio.
Io e Paola mostriamo all'ingegnere i nostri curriculum vitae.
In questa frase il plurale di curriculum è dato dall'articolo "i". Stiamo parlando in lingua italiana e dunque dobbiamo "ragionare" in lingua italiana, pur utilizzando un latinismo, ormai entrato nell'uso comune. Ricorriamo dunque all'articolo, evitiamo la declinazione.
E adesso vediamo la forma declinata.
Io e Paola mostriamo all'ingegnere i nostricurricula vitae.
Abbozzo una traduzione.
Io e Paola mostriamo all'ingegnere le nostrecorse della vita.
Capite bene che quest'ultima proposizione appare di per sé stessa quanto meno divertente. Non possiamo rendere la frase in altro modo, prima di tutto perché quella è la traduzione letterale di curricula, neutro plurale di curriculum. In secondo luogo perché, mentre per il singolare curriculum conosciamo un uso figurato corrispondente a corso, cioè a "movimento" (quindi carriera della vita o degli studi), non possiamo dire che la parola, resa al plurale, abbia la stessa garanzia di significato. Immaginate un po' le carriere della vita.
Il divertimento dunque continuerebbe laddove ci trovassimo a consegnare all'ingegnere di sopra i movimenti della vita o le corse degli studi.
A ciò aggiungo che, dal momento che parliamo in italiano e ci riferiamo ad un uditorio che comprende la lingua italiana, ma potrebbe non comprendere quella latina, non vedo quale sia il motivo di mettersi a declinare le parole. A questo punto, se si decide di rivolgersi esclusivamente a chi apprezza la "finezza" della desinenza declinata, sembrerebbe più coerente scrivere tutta la frase (o periodo o brano o articolo) in latino.
Per finire, appare ancora più delizioso il fatto che quelle stesse persone che decidono di declinare un latinismo, poi ne lasciano intatti altri, "italianizzandoli".
Perché?
Il latino è uguale per tutti!
E in caso di dubbio, un bel piatto spaghettorum è sempre una soluzione.
Concetta D'Orazio
Ho commesso un lapsus.
Eri davvero emozionato, quanti lapsus hai commesso, oggi!
Nel primo caso, se avessi voluto declinare la parola lapsus, avrei dovuto metterla all'accusativo singolare, lapsum, visto che è in funzione di complemento oggetto ma ho lasciato la parola irrigidita per due motivi.
1. La lingua italiana non prevede l'utilizzo di una diversa forma di desinenza delle parole, a parte nella differenza fra singolare e plurale.
2. I vocaboli in latino devono essere usati in maniera statica, cioè senza subire declinazione, essendo termini appartenenti ad una lingua diversa dalla nostra.
E pur se il latino è nostro nonno, per così dire, l'accostamento della desinenza dei casi e dell'articolo mi pare davvero eccessivo e ridondante.
Ricordate bene: eccessivo e ridondante.
Scriviamo in italiano, abbiamo i nostri articoli (ma anche le nostre preposizioni e tanta altra roba), per quale motivo dobbiamo ostinarci a mettere pure la desinenza giusta?
In lingua italiana una parola straniera (o "vecchia) rimane statica.
Consideriamo anche altro.
Spesso in italiano utilizziamo parole in latino che, in realtà, in origine erano voci verbali.
Questo vale, ad esempio, per deficit (terza persona singolare, indicativo presente dal verbo deficio), la cui traduzione letterale sarebbe: si stacca, si separa, viene meno. Comprendiamo bene come l'uso in italiano di deficit è assolutamente sostantivato.
Per questi motivi, ripeto, è da evitare la declinazione.
Hai ricevuto le notifiche del forum?
In questo caso, potendo contare in italiano sulla preposizione articolata, ho utilizzato la forma statica della parola, forum appunto, di sicuro non l'originario genitivo singolare fori.
Non ardirei mai a declinare in italiano horror, iunior, curriculum e così via.
È importante tenere presente che taluni termini in latino, declinati, potrebbero anche assumere un senso improprio. È questo il caso di curriculum, appunto.
L'originario significato di curriculum è quello di corsa. In senso figurato il curriculum diventa il corso, della vita e/o degli studi (vitae/studiorum).
Cosa accadrebbe se adoperando questo vocabolo oggi decidessimo di renderlo al plurale, curricula?
Anche in questo caso è necessario un esempio.
Io e Paola mostriamo all'ingegnere i nostri curriculum vitae.
In questa frase il plurale di curriculum è dato dall'articolo "i". Stiamo parlando in lingua italiana e dunque dobbiamo "ragionare" in lingua italiana, pur utilizzando un latinismo, ormai entrato nell'uso comune. Ricorriamo dunque all'articolo, evitiamo la declinazione.
E adesso vediamo la forma declinata.
Io e Paola mostriamo all'ingegnere i nostri
Abbozzo una traduzione.
Io e Paola mostriamo all'ingegnere le nostre
Capite bene che quest'ultima proposizione appare di per sé stessa quanto meno divertente. Non possiamo rendere la frase in altro modo, prima di tutto perché quella è la traduzione letterale di curricula, neutro plurale di curriculum. In secondo luogo perché, mentre per il singolare curriculum conosciamo un uso figurato corrispondente a corso, cioè a "movimento" (quindi carriera della vita o degli studi), non possiamo dire che la parola, resa al plurale, abbia la stessa garanzia di significato. Immaginate un po' le carriere della vita.
Il divertimento dunque continuerebbe laddove ci trovassimo a consegnare all'ingegnere di sopra i movimenti della vita o le corse degli studi.
A ciò aggiungo che, dal momento che parliamo in italiano e ci riferiamo ad un uditorio che comprende la lingua italiana, ma potrebbe non comprendere quella latina, non vedo quale sia il motivo di mettersi a declinare le parole. A questo punto, se si decide di rivolgersi esclusivamente a chi apprezza la "finezza" della desinenza declinata, sembrerebbe più coerente scrivere tutta la frase (o periodo o brano o articolo) in latino.
Per finire, appare ancora più delizioso il fatto che quelle stesse persone che decidono di declinare un latinismo, poi ne lasciano intatti altri, "italianizzandoli".
Perché?
Il latino è uguale per tutti!
E in caso di dubbio, un bel piatto spaghettorum è sempre una soluzione.
Concetta D'Orazio
martedì 10 marzo 2015
Un anno di Nero di memoria
Parte due - Abruzzo, il dialetto nel cuore - La cìtilanze
Lu citele, il figlio della memoria
«Filomena posso portare ‘stu cìtele a vedere il treno? [...] »
Nel capitolo XX di Nero di memoria, zio Maurizio chiede a Filomena di poter portare con sé il bambino (lu cìtele) alla stazione, a guardare i treni.
Il termine cìtele ricorre spesso ad indicare, fra gli altri, il figlio più piccolo di Filomena, il terzo, Giovannino, Giannino.
Spesso la parola veniva sostituita con lu quatrale (la quatrale, li quatriele). A volte, i piccoli venivano chiamati li bardasce (la bardasce, lu bardasce).
In Nero di memoria ho preferito il termine cìtele. Il motivo è molto semplice: la parola fa nascere in me sentimenti di tenerezza, forse legati alla mia infanzia.
Lu citele, il figlio della memoria
«Filomena posso portare ‘stu cìtele a vedere il treno? [...] »
Nel capitolo XX di Nero di memoria, zio Maurizio chiede a Filomena di poter portare con sé il bambino (lu cìtele) alla stazione, a guardare i treni.
Il termine cìtele ricorre spesso ad indicare, fra gli altri, il figlio più piccolo di Filomena, il terzo, Giovannino, Giannino.
Anch'io sono stata una cìtele e tutti i miei compagni di giochi sono stati li cìtele.
Questo vocabolo dialettale ha accompagnato la mia infanzia.
Spesso la parola veniva sostituita con lu quatrale (la quatrale, li quatriele). A volte, i piccoli venivano chiamati li bardasce (la bardasce, lu bardasce).
In Nero di memoria ho preferito il termine cìtele. Il motivo è molto semplice: la parola fa nascere in me sentimenti di tenerezza, forse legati alla mia infanzia.
Cìtele, inoltre, mi pare meglio riferito ad un bambino molto piccolo, come lo è Giovanni appunto, il figlio della memoria.
Come tanti vocaboli del dialetto, il termine cìtele contiene, nella sua parte finale, la vocale indistinta e (che viene resa con il segno ë).
Per riuscire a comprendere quale sia il genere e quale sia il numero indicato dell'indeclinabile citelë, abbiamo pertanto bisogno di avvalerci dell'aiuto del rispettivo articolo anteposto alla parola.
Per riuscire a comprendere quale sia il genere e quale sia il numero indicato dell'indeclinabile citelë, abbiamo pertanto bisogno di avvalerci dell'aiuto del rispettivo articolo anteposto alla parola.
Lu cìtelë è il bambino.
La cìtelë è la bambina;
Li cìtelë sono i bambini;
Le cìtelë sono le bambine.
Conviene aprire qui anche un'ulteriore parentesi: gli articoli, così come gli aggettivi e i pronomi, utilizzati nel dialetto abruzzese, (mi riferisco in questa sede alla zona Lancianese-Vastese), sono di chiara derivazione dal latino:
- lu (chelu cìtele, quel bambino) ricorda il latino ille (quello);
- la (chela cìtele, quella bambina) ricorda il latino illa (quella);
- li (cheli cìtele, quei bambini) ricorda il latino illi (quelli);
- le (chele cìtele, quelle bambine) ricorda il latino illae (quelle).
Da citelë alla cìtilanzë: potremmo tradurlo come "infanzia", cioè età dei cìtelë. L'utilizzo più noto di questo termine è contenuto in un verso nella celebre canzone popolare abruzzese Vola, vola, vola (Albanese-Dommarco, 1908).
La mia cìtilanzë, e quella di gran parte dei miei coetanei, è trascorsa così, a raccogliere margherite nei prati, a correre, incuranti dei richiami dei nostri genitori che, contrariamente a quelli moderni, lasciavano giocare i bambini molto liberamente nel parco vicino casa, tanto c'era sempre qualcuno, fra gli adulti, che, passando, davë 'n'uocchie a le cìtelë (dava uno sguardo ai bambini), per controllare che tutto fosse sotto controllo.
Amo il nostro dialetto, soprattutto perché capace di trasfigurare significati e significanti nelle varie utilizzazioni delle parole, che resteranno per sempre nel mio ricordo.
Da citelë alla cìtilanzë: potremmo tradurlo come "infanzia", cioè età dei cìtelë. L'utilizzo più noto di questo termine è contenuto in un verso nella celebre canzone popolare abruzzese Vola, vola, vola (Albanese-Dommarco, 1908).
La mia cìtilanzë, e quella di gran parte dei miei coetanei, è trascorsa così, a raccogliere margherite nei prati, a correre, incuranti dei richiami dei nostri genitori che, contrariamente a quelli moderni, lasciavano giocare i bambini molto liberamente nel parco vicino casa, tanto c'era sempre qualcuno, fra gli adulti, che, passando, davë 'n'uocchie a le cìtelë (dava uno sguardo ai bambini), per controllare che tutto fosse sotto controllo.
Amo il nostro dialetto, soprattutto perché capace di trasfigurare significati e significanti nelle varie utilizzazioni delle parole, che resteranno per sempre nel mio ricordo.
Concetta D'Orazio
lunedì 9 marzo 2015
Riflessioni a tempo - Ipocrisia ed onestà
È ipocrisia al quadrato quella che si impegna a confondere l'onestà, con chiacchiere lacrimose.
sabato 7 marzo 2015
Riflessioni a tempo - Esperienza indifferenziata
Ti prodighi in tutto quel che ti si offre. Professionista indistinta.
Insaporisci i brodi con la tua tuttologia.
Insaporisci i brodi con la tua tuttologia.
La mente cammina, dove la penna si trascina
Adesso che è cambiato il tuo momento,
del mio potresti non necessitare.
E mi trema il petto
per la rabbia,
e per l’invidia mi mastica il cuore.
Hai fatto solo danno
e questo basta.
E ancor non ti ho sperduto
E ancor non ti condanno.
(Florilegio, giugno 2012)
venerdì 6 marzo 2015
Riflessioni a tempo - Saltelli
Saltelli e caramelle. Volteggi tra sorrisi isterici.
Riempi la scena. Convulsa. Esaltata.
Negletta, nella parodia di quel che avresti voluto essere.
Riempi la scena. Convulsa. Esaltata.
Negletta, nella parodia di quel che avresti voluto essere.
Riflessioni a tempo - La verità
Quello che sei, impresso su quel rullino di tempo sterile, ti riflette la ruggine.
Voltati.
Voltati.
Antonio è prigioniero di guerra.
Custodisce nel cuore il ricordo della moglie e dei loro due figli.
Filomena aspetta il ritorno di quel marito, partito per il fronte.
Lo aspetta e protegge i tre figli.
"Nero di memoria", l'amore ai tempi della guerra. Il romanzo potrà essere scaricato nei giorni di venerdì 5 e sabato 6 marzo.
domenica 1 marzo 2015
Ma chi è?
Zitta. Non ho parlato, nemmeno ho scritto sul quaderno, come di solito faccio quando mi trovo in situazioni inverosimili.
Ieri, sul presto: sono rimasta in silenzio, mentre la mente mi cantava strane e malinconiche melodie.
Le canzoni, poi, si alternavano ai silenzi e io sorridevo a chi mi stava davanti. Le acconciavo la bocca a contentezza, ma lei, caparbia, me la restituiva arrossandola di mestizia.
Allora sono rimasta ferma, limitandomi a guardarla. Senza dire una parola, né azzardare un ghigno.
La vedevo: davvero insolita quella persona. Aveva gli occhi ancora addormentati. Si passava la mano fra i capelli. Se li acconciava. E poi tornava a lisciarseli.
Ho deciso, alla fine, di non considerarla. Avevo altro da fare. Io.
Non è possibile. Ancora! Il primo pensiero di questa mattina non può essere rivolto di nuovo a quella! Ma che mi prende? Nemmeno la conosco.
È vero: ieri sono andata via e non l'ho neppure salutata. Dai, ora le faccio un cenno, così, solo per cinque minuti, tanto per non fare la figura della maleducata.
Mi ci posiziono di nuovo davanti. Ancora la solita vestaglia! Ma da dove arriva questa?
L'orecchino, lo sta perdendo. Ecco, se n'è accorta: svelta, con la mano destra, lo tira su e stringe un po' la monachella.
Ho deciso, alla fine, di non considerarla. Avevo altro da fare. Io.
Non è possibile. Ancora! Il primo pensiero di questa mattina non può essere rivolto di nuovo a quella! Ma che mi prende? Nemmeno la conosco.
È vero: ieri sono andata via e non l'ho neppure salutata. Dai, ora le faccio un cenno, così, solo per cinque minuti, tanto per non fare la figura della maleducata.
Mi ci posiziono di nuovo davanti. Ancora la solita vestaglia! Ma da dove arriva questa?
L'orecchino, lo sta perdendo. Ecco, se n'è accorta: svelta, con la mano destra, lo tira su e stringe un po' la monachella.
Avrei molti impegni, oggi, ma quasi quasi mi è venuta curiosità.
Una tipa così: e quando mi ricapita? Potrei scriverci un libro.
Una tipa così: e quando mi ricapita? Potrei scriverci un libro.
Indugio, osservo quegli occhi. Mi soffermo sulle labbra.
Ora che fa? Se le morde?
Che abbia avuto qualche pentimento? Ah, già. Si sarà appena accorta di essere uscita in camicia da notte! Che figura.
Qualcuno avrebbe dovuto avvisarla prima.
Ma tanto a me cosa importa?
Va bene, il mio dovere l'ho fatto. Lei oggi non mi ha nemmeno considerata. Siamo pari.
Sto per girare i tacchi, bellezza, vado via.
No. Ancora. Basta! Che fa? Piange? Oddio. E ora cosa le dico? Come potrei consolarla? Non so niente di lei. Ma soprattutto: a me cosa dovrebbe interessare dei suoi dolori?
Azzardo una carezza?
Azzardo una carezza.
Le faccio gli occhi teneri?
Le faccio gli occhi teneri.
Continua a piangere?
Eh, che due maccheroni! Ma cosa vuoi da me?
Eppure, adesso, quell'occhio un po' umido mi pare quasi conosciuto.
L'immagine, è incredibile, mi è familiare, in effetti, ma non ricordo: dove l'ho già incontrata? E in quali circostanze?
La lascio perdere. Troppo tempo buttato ad osservare un'ignota o forse soltanto una conoscente.
Ma chi crede di essere?
Ah. Hai smesso di piangere, eh?
Guardati ora. Che fai? Mi strizzi l'occhio da rapa lessa?
Avrei voluto trovare una maniera per consolarti e invece tu mi ringrazi con quel riso maligno?
Mi prendi in giro. Ma tu pensa.
Che arrogante che sei. Mi sento attraversata dalla tua insolenza.
Presuntuosa. Non sei l'unica ad avere i capelli, sai?
Sono lunghi? Embè? Io li vedo tutti intrecciati. Mettiti in ordine, che così fai ridere!
Vai a far del bene alla gente.
C. D'Orazio
Ora che fa? Se le morde?
Che abbia avuto qualche pentimento? Ah, già. Si sarà appena accorta di essere uscita in camicia da notte! Che figura.
Qualcuno avrebbe dovuto avvisarla prima.
Ma tanto a me cosa importa?
Va bene, il mio dovere l'ho fatto. Lei oggi non mi ha nemmeno considerata. Siamo pari.
Sto per girare i tacchi, bellezza, vado via.
No. Ancora. Basta! Che fa? Piange? Oddio. E ora cosa le dico? Come potrei consolarla? Non so niente di lei. Ma soprattutto: a me cosa dovrebbe interessare dei suoi dolori?
Azzardo una carezza?
Azzardo una carezza.
Le faccio gli occhi teneri?
Le faccio gli occhi teneri.
Continua a piangere?
Eh, che due maccheroni! Ma cosa vuoi da me?
Eppure, adesso, quell'occhio un po' umido mi pare quasi conosciuto.
L'immagine, è incredibile, mi è familiare, in effetti, ma non ricordo: dove l'ho già incontrata? E in quali circostanze?
La lascio perdere. Troppo tempo buttato ad osservare un'ignota o forse soltanto una conoscente.
Ma chi crede di essere?
Ah. Hai smesso di piangere, eh?
Guardati ora. Che fai? Mi strizzi l'occhio da rapa lessa?
Avrei voluto trovare una maniera per consolarti e invece tu mi ringrazi con quel riso maligno?
Mi prendi in giro. Ma tu pensa.
Che arrogante che sei. Mi sento attraversata dalla tua insolenza.
Presuntuosa. Non sei l'unica ad avere i capelli, sai?
Sono lunghi? Embè? Io li vedo tutti intrecciati. Mettiti in ordine, che così fai ridere!
Vai a far del bene alla gente.
C. D'Orazio
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