L'ombra è fastidiosa e ridicola. Ripete le posizioni.
E distorce.
Tranquilla, non rido.
venerdì 30 gennaio 2015
Flavietta e Fortunata
«Venga,
cara. Piacere, io sono Flavietta», la voce uno si è presentata, «e lei è…»
«Fortunata»,
la anticipo io, «la signora Fortunata, di nome e di fatto?»
La erre moscia non dà
cenni di assenso né di dissenso. [...]
Maria Celeste, nel corso dei suoi piccoli e misteriosi viaggi, conosce diverse persone.
Su di una spiaggia di ciottoli, sulla Costa dei Trabocchi, incontra due signore: Flavietta e Fortunata.
Le due sono sirene al bagno particolari, imbottigliate nei loro costumi interi.
giovedì 29 gennaio 2015
lunedì 26 gennaio 2015
# gratis 26-28 gennaio
Innumerevoli parenti, quasi cugini, zii di terzo e quarto grado, ma anche di quinto, sono accorsi ad aiutarmi a togliere il cappotto. Mi sento affannata. Tutta questa gente intorno!
Una mano piena di nodi mi accarezza con dolcezza la faccia, poi sulla mia testa, afferra il berretto e…
Mia madre si gira, il suo sguardo non è molto amabile. Vedo che trattiene le parole che, a giudicar dalla sua faccia, non sono molto tenere. Abbozza un sorriso forzato ma poi si arrende all'evidenza dei fatti.
Le ho tolte. Le ho disintegrate.
Sono libera!
da Riprendiamoci il Natale
Cari amici, volevo ricordare che la mia raccolta di racconti è in promozione gratuita dal 26 al 28 gennaio 2015
Non fatevi ingannare dalla copertina e dal titolo: il Natale è solo una scusa...per inventare storie.
Cari amici, volevo ricordare che la mia raccolta di racconti è in promozione gratuita dal 26 al 28 gennaio 2015
Non fatevi ingannare dalla copertina e dal titolo: il Natale è solo una scusa...per inventare storie.
sabato 24 gennaio 2015
Paola
«Paola è una maestra nell’arte di fingere apprensione.
Non posso dire che di me non le interessi nulla, questo no. Non sopporterebbe l’idea di perdermi. Ha una paura matta di rimanere sola. Come farebbe?
Come potrebbe organizzare il suo ottimismo, senza poter contare sulla mia presenza triste? Come potrebbe godere del personale buonumore, senza poterlo misurare sulla mia malinconia? [...]»
La fragranza dell'assenza
#lafragranzadellassenza #ebook
venerdì 23 gennaio 2015
Gnocchi con pesce
Cari amici, ho già scritto la ricetta per la realizzazione degli gnocchi di patate. La potete trovare qui.
Anche se il condimento principe di questa pasta fatta in casa è sicuramente il ragù (semplice o elaborato), gli gnocchi sono ottimi da consumare con varie salse o comunque con diverso tipo di "accompagnamento".
Sono buonissimi, ad esempio, con il pesce.
Ingredienti
Per la pasta
4 belle patate grosse
250/300 gr. di farina 'O
1 uovo
Sale
Per il condimento
Scegliete il pesce con cui più vi piace condire la pasta (calamari, gamberetti, scampi, vongole).
Olio
Aglio
Cipolla
Carota
Sedano
Prezzemolo
Mezzo bicchiere di vino bianco.
Preparazione
La preparazione degli gnocchi la trovate qui.
Per il condimento: mettete a soffriggere, in una padella, un paio di spicchi di aglio, un pezzetto di cipolla, una carota e sedano.
Mettete un po' d'acqua.
Fate cuocere a fuoco molto lento il pesce, avendo cura di iniziare con il tipo per cui occorre una cottura più lunga (calamari, ad esempio) e quindi aggiungendo man mano il resto.
Lasciate il tegame sul fuoco per circa una ventina di minuti. Il tempo di cottura varia a seconda del pesce e della sua consistenza.
Versate ancora dell'acqua: il sughetto ottenuto deve risultare sempre molto liquido.
A cottura quasi ultimata, aggiungete il mezzo bicchiere di vino bianco, che lascerete evaporare lentamente.
Nel frattempo avrete messo a bollire l'acqua salata, in cui avrete immerso gli gnocchi. La loro cottura è molto veloce: potrete scolarli quando li vedrete galleggiare in superficie.
Versateli nel tegame del pesce e fate amalgamare bene pasta e condimento. Mettete qualche cucchiaio di acqua di cottura.
Buon appetito.
giovedì 22 gennaio 2015
Cuori d'Abruzzo
Noi siamo duri come questa roccia.
Come questa pietra testardi.
E siamo accomodanti come la spuma del mare.
Visita l'Abruzzo, una terra di forza, dove la montagna degrada deliziosamente, ammorbidendosi nelle acque adriatiche.
#visitabruzzo #yourabruzzo #abruzzo
mercoledì 21 gennaio 2015
Domenica. Di paste, di cucina e di minuti pomeridiani
Tavola apparecchiata per tutti. La domenica era domenica. E non si discuteva.
Sono cresciuta con l'idea che il giorno festivo dovesse rendere indietro il tempo che avevamo consumato ognuno per proprio conto, occupato nelle personali attività, durante la settimana.
Così, di domenica, ciascuno dei componenti della famiglia andava ad occupare il posto assegnato a tavola, potendo finalmente godere di un margine di libertà dagli impegni del quotidiano: lavoro, scuola e così via.
Come pezzetti di puzzle che si incastravano a meraviglia, le parti recuperavano la loro identità di gruppo consanguineo.
E se la riprendevano attorno al desco.
La nostra, insomma, era la domenica come quella di tante altre famiglie, ma, come tutte le domeniche di ogni famiglia, quella era la nostra. E basta.
Ed ognuno aveva la propria.
Ed ognuno aveva la propria.
Avevamo le pietanze di gran cerimonia: la pasta fatta in casa, un secondo più elaborato. E finalmente il dolce. Quasi sempre.
I tempi sono cambiati ma ancora, oggi, mi piace sempre celebrare, sì, con gran daffare (mio) e magno cum gaudio (sempre mio) la giornata dedicata.
I fornelli si attivano dal pomeriggio prima, quando è possibile: preparo ragù, anticipo semmai per gli gnocchi del domani o comunque la pasta all'uovo fatta a mano.
Mi piace sottolineare che un giorno, quel giorno appunto, sia diverso dagli altri. Sia di "stacco" e di riposo, nonché di riflessione. Con i minuti pomeridiani consumati dentro casa.
Anche un paio di avvio-lavatrice poi ci stanno bene, eh.
Concetta D'Orazio
lunedì 19 gennaio 2015
Abruzzo. La pietra. L'arrendevolezza.
E siamo accomodanti come la spuma del mare.
Visita l'Abruzzo, una terra di forza, dove la montagna degrada deliziosamente, ammorbidendosi nelle acque adriatiche.
I pertugi dell'anima
Non ha più vent'anni.
Non ha più chi sottolinea la vivacità del suo pensiero.
È per questo che Maria Celeste tortura il suo corpo, privandolo del cibo.
«Tutto il mio Io deve passare nei pertugi dell’anima.
È per questo che mi impegno a rimanere sottile. [...]»La fragranza dell'assenza
venerdì 16 gennaio 2015
Continuo
a girarmi nel letto. Paola se n’è andata, lasciandomi sola con il fagotto di
ossa e pelle sul fisico. Con la mia zavorra di grasso e di incoscienza nella
testa.
I
bagliori della domenica romana si infilano, assottigliandosi, nelle fessure
della persiana. Si fa magra la luce, proprio come me. Deve entrare negli
spiragli dell’imposta.
Tutto
il mio Io deve passare nei pertugi
dell’anima.
È
per questo che mi impegno a rimanere sottile. [...]
La fragranza dell'assenza, dicembre 2014
giovedì 15 gennaio 2015
Premura di protezione: la mia Majella
Un'inclinazione diversa ed un colore nuovo per me, ogni volta, che è di tenerezza.
E di baluardo al mondo altro.
Pur se pare abbandonarsi alle note svelte o lente dei venti che l'attraversano, spingendola, non si muove mai dal suo posto. Cambia forma forse, ma non molla quella sua collocazione antica.
La mia Majella.
Sono cresciuta, guardandola e riconoscendola, ogni volta che si nascondeva dietro a nuvole grosse o a raggi di luce estremi.
Quelle pendenze che tendono all'alto, a volte dure, a volte dolci fino allo sfinimento della curva, hanno accompagnato tutti gli anni miei.
L'ho vista sempre la montagna, dalle mie finestre, benché ne abbia cambiate diverse, consumandone le tendine, a furia di lanciare lo sguardo, per controllare che fosse sempre al suo posto.
E, nell'intera vita mia, non si è mai mossa da lì.
Io la guardo ma lei ricambia.
Ha osservato la mia infanzia.
Ha ammiccato alla mia giovinezza di idee spavalde e di piedi svelti.
Mi vede ancora, mentre me la sistemo, adesso, la mia lentezza di età matura.
Io e le mie cure.
Lei e le sue attenzioni.
La mia Majella.
Concetta D'Orazio
Un anno di Nero di memoria
Parte due - Abruzzo, il dialetto nel cuore - La spasetta
Nel corso della composizione di Nero di memoria ho condotto, come è naturale, numerose ricerche.
Non mi è stato però necessario dover studiare troppo, per quel che riguarda alcune parole o espressioni in dialetto abruzzese, che ho inserito nel libro.
Non mi è stato però necessario dover studiare troppo, per quel che riguarda alcune parole o espressioni in dialetto abruzzese, che ho inserito nel libro.
Il dialetto, l'ho detto già, è una parte di me e convive da sempre con il mio modo di esprimermi formale ed accreditato, vale a dire in lingua italiana.
Così credo che sia accaduto per parecchie persone che appartengono alla mia generazione ed hanno vissuto in realtà territoriali piccole, quali possono essere paesi o cittadine.
Siamo cresciuti a "doppia lingua" e la seconda, prima o dopo l'italiano, non siamo andati a cercarla troppo lontano. Non siamo stati neppure costretti a fare sacrifici per costosi soggiorni all'estero.
La nostra lingua altra è stata quella che genitori e nonni ci hanno insegnato, facendola passare per buona, prima ancora di quella ufficiale, vale a dire l'italiano.
Non ho nessun problema, tanto meno alcun tipo di disagio a riconoscerlo: le mie prime frasi di senso compiuto, pronunciate da bambina, lo ipotizzo con sicurezza, furono in abruzzese.
Sì perché a quei tempi (anni '70) la lingua quotidiana, utilizzata da un ceto medio di residenti in un piccolo borgo, era il dialetto appunto.
Non che la lingua italiana non fosse conosciuta, ma si ricorreva ad essa in particolari occasioni, quelle per le quali era opportuno non comunicare in abruzzese.
Nella mia personale realtà famigliare, gli adulti si esprimevano in italiano in determinate situazioni: nel rispondere al telefono, nelle varie faccende da sbrigare negli uffici pubblici, nei colloqui con maestre e professori, nel corso delle visite mediche.
Noi bambini, in tal modo, vivevamo già in una realtà dichiaratamente bilingue, essendo divenuti ben presto esperti a comunicare a seconda della circostanza.
Insomma, si "esponeva bene" in tutte quelle occorrenze in cui si temeva di non venir compresi dall'interlocutore che si riteneva persona istruita o di riguardo.
In sostanza, si cercava di non far brutta figura. Come se l'esprimersi nella parlata di tutti i giorni potesse essere considerato un segno di leggerezza o di poca eleganza.
È difficile riuscire a capire cosa potesse allora, e in alcuni casi anche ai nostri giorni, far sembrare imbarazzante discorrere nel nostro bellissimo idioma regionale, armonioso e gradevole, tanto quanto la lingua italiana accreditata.
Con la maturità di oggi, mi piace pensare che quel disagio fosse in realtà da ricondurre ad una sorta di timidezza o di riserbo, da parte di persone la cui esperienza di vita è stata sempre molto spontanea e genuina.
La necessità di salvaguardare ogni realtà linguistica locale e circoscritta è un'esigenza che cercherò di condividere il più possibile, con questo ed altri articoli.
Riprendo ora quel discorso che ha dato inizio all'intervento: l'inserimento di termini ed espressioni abruzzesi nel mio libro.
Non ho esagerato, a dire il vero, con il dialetto, per non incorrere nella critica di chi potesse leggere questa mia eventuale scelta come un modo per escludere chi non comprende bene il significato di termini e frasi della parlata caratteristica.
Alcune parole, tuttavia, le ho messe, soprattutto perché contengono un valore che va al di là del senso che attribuiamo normalmente al termine.
Per cercare di spiegare questa mia opinione, e per iniziare a dare qualche riferimento concreto, voglio ricordare il termine spasetta, che nel romanzo è utilizzato da Filomena, la protagonista, in questa espressione.
«La mosca! Si sta posando sulla spasetta dei maccaroni!» (Nero di Memoria, cap. I)
Nel dialetto di oggi, il termine spasette, spasetta, è stato sostituito da quello di vassoje, molto più vicino all'italiano vassoio.
Con esso indichiamo la ciotola piatta o poco fonda che normalmente si utilizza per servire dolci o piccole pietanze salate.
Da bambina, lo ricordo molto bene, quel contenitore era chiamato spasetta, termine a volte sostituito da huantiere (guantiera, da intendere non nel significato dell'originario "porta guanti", bensì in quello di recipiente in cui offrire cibo).
Questa parola racchiudeva in sé tutta la natura quasi devozionale che poteva avere l'atto di accogliere l'ospite in casa.
La visita di un amico, di un parente o di un vicino di casa doveva essere approvata, quasi
magnificata, da gesti rituali e dall'utilizzo di oggetti predisposti e tenuti in serbo per queste occasioni (la zuccheriera, la tazzina del servizio buono, la spasetta appunto).
Per questo motivo ogni volta che mi capita, raramente ormai a dire la verità, di sentir nominare quel vocabolo, nella mia testa si attiva un ricordo composito. In esso vedo persone sedute intorno alla tavola apparecchiata, su cui spicca la spasetta, con sopra lu centre o lu centrucce (manufatto ricamato o all'uncinetto), su cui sono appoggiati bocconotti e pizzelle.
Anche se a volte lo si utilizzava per altre necessità di casa, come nel riferimento di sopra alla frase del libro, quello che potremmo definire il vassoio di rappresentanza, la spasetta appunto, doveva essere sempre tenuto in gran conto: lucido e pronto ad accogliere l'ospite.
Concetta D'Orazio
Così credo che sia accaduto per parecchie persone che appartengono alla mia generazione ed hanno vissuto in realtà territoriali piccole, quali possono essere paesi o cittadine.
Siamo cresciuti a "doppia lingua" e la seconda, prima o dopo l'italiano, non siamo andati a cercarla troppo lontano. Non siamo stati neppure costretti a fare sacrifici per costosi soggiorni all'estero.
La nostra lingua altra è stata quella che genitori e nonni ci hanno insegnato, facendola passare per buona, prima ancora di quella ufficiale, vale a dire l'italiano.
Non ho nessun problema, tanto meno alcun tipo di disagio a riconoscerlo: le mie prime frasi di senso compiuto, pronunciate da bambina, lo ipotizzo con sicurezza, furono in abruzzese.
Sì perché a quei tempi (anni '70) la lingua quotidiana, utilizzata da un ceto medio di residenti in un piccolo borgo, era il dialetto appunto.
Non che la lingua italiana non fosse conosciuta, ma si ricorreva ad essa in particolari occasioni, quelle per le quali era opportuno non comunicare in abruzzese.
Nella mia personale realtà famigliare, gli adulti si esprimevano in italiano in determinate situazioni: nel rispondere al telefono, nelle varie faccende da sbrigare negli uffici pubblici, nei colloqui con maestre e professori, nel corso delle visite mediche.
Noi bambini, in tal modo, vivevamo già in una realtà dichiaratamente bilingue, essendo divenuti ben presto esperti a comunicare a seconda della circostanza.
Insomma, si "esponeva bene" in tutte quelle occorrenze in cui si temeva di non venir compresi dall'interlocutore che si riteneva persona istruita o di riguardo.
In sostanza, si cercava di non far brutta figura. Come se l'esprimersi nella parlata di tutti i giorni potesse essere considerato un segno di leggerezza o di poca eleganza.
È difficile riuscire a capire cosa potesse allora, e in alcuni casi anche ai nostri giorni, far sembrare imbarazzante discorrere nel nostro bellissimo idioma regionale, armonioso e gradevole, tanto quanto la lingua italiana accreditata.
Con la maturità di oggi, mi piace pensare che quel disagio fosse in realtà da ricondurre ad una sorta di timidezza o di riserbo, da parte di persone la cui esperienza di vita è stata sempre molto spontanea e genuina.
La necessità di salvaguardare ogni realtà linguistica locale e circoscritta è un'esigenza che cercherò di condividere il più possibile, con questo ed altri articoli.
Riprendo ora quel discorso che ha dato inizio all'intervento: l'inserimento di termini ed espressioni abruzzesi nel mio libro.
Non ho esagerato, a dire il vero, con il dialetto, per non incorrere nella critica di chi potesse leggere questa mia eventuale scelta come un modo per escludere chi non comprende bene il significato di termini e frasi della parlata caratteristica.
Alcune parole, tuttavia, le ho messe, soprattutto perché contengono un valore che va al di là del senso che attribuiamo normalmente al termine.
Per cercare di spiegare questa mia opinione, e per iniziare a dare qualche riferimento concreto, voglio ricordare il termine spasetta, che nel romanzo è utilizzato da Filomena, la protagonista, in questa espressione.
«La mosca! Si sta posando sulla spasetta dei maccaroni!» (Nero di Memoria, cap. I)
Nel dialetto di oggi, il termine spasette, spasetta, è stato sostituito da quello di vassoje, molto più vicino all'italiano vassoio.
Con esso indichiamo la ciotola piatta o poco fonda che normalmente si utilizza per servire dolci o piccole pietanze salate.
Da bambina, lo ricordo molto bene, quel contenitore era chiamato spasetta, termine a volte sostituito da huantiere (guantiera, da intendere non nel significato dell'originario "porta guanti", bensì in quello di recipiente in cui offrire cibo).
Questa parola racchiudeva in sé tutta la natura quasi devozionale che poteva avere l'atto di accogliere l'ospite in casa.
La visita di un amico, di un parente o di un vicino di casa doveva essere approvata, quasi
magnificata, da gesti rituali e dall'utilizzo di oggetti predisposti e tenuti in serbo per queste occasioni (la zuccheriera, la tazzina del servizio buono, la spasetta appunto).
Per questo motivo ogni volta che mi capita, raramente ormai a dire la verità, di sentir nominare quel vocabolo, nella mia testa si attiva un ricordo composito. In esso vedo persone sedute intorno alla tavola apparecchiata, su cui spicca la spasetta, con sopra lu centre o lu centrucce (manufatto ricamato o all'uncinetto), su cui sono appoggiati bocconotti e pizzelle.
Anche se a volte lo si utilizzava per altre necessità di casa, come nel riferimento di sopra alla frase del libro, quello che potremmo definire il vassoio di rappresentanza, la spasetta appunto, doveva essere sempre tenuto in gran conto: lucido e pronto ad accogliere l'ospite.
Concetta D'Orazio
#dialettoabruzzese #dialetto #spasetta
martedì 6 gennaio 2015
Riflessioni a tempo - Lo specchio
Grande rispetto per gli specchi. Per quelli ovali, rotondi. Per quelli lindi.
Ho grande pena, invece, per gli specchi un po' adombrati o comunque che riflettono immagini imbrattate.
Ad età attempata, soprattutto, lo specchio dovrebbe poter restituire un'immagine nitida, pulita. Insomma incorrotta.
Dovrebbe, appunto.
A tutte le età avanzate. Come la tua, precisamente.
Riflessioni a tempo - Gli allori
Tu adagiati. Gli allori sono comodi. Morbidi ed invitanti.
Sono pure più profumati.
Gli allori altrui.
Sono pure più profumati.
Gli allori altrui.
lunedì 5 gennaio 2015
Riflessioni a tempo - L'imitazione pedissequa
Sull'imitazione pedissequa.
Io, ad esempio, non sprecherei mai il tempo a ricalcare le orme di colui o colei che non ritengo una persona eccellente.
Io, ad esempio, non sprecherei mai il tempo a ricalcare le orme di colui o colei che non ritengo una persona eccellente.
sabato 3 gennaio 2015
Un anno di "Nero di memoria"
La storia (parte uno) - La fame e le patate
Ad ottobre 2013 terminavo e mettevo online il mio Nero di memoria, un libro a cui sono affezionata, dal momento che esso rappresenta un impegno che ho voluto prendere mea sponte sì, ma che ho portato avanti con la cura che sentivo essermi richiesta in qualche parte del mio "di dentro".
Da chi mi fosse reclamata questa preoccupazione, a dire la verità, non lo so bene nemmeno io.
Il bisogno di appuntare nasceva dentro, come per rispondere ad un lontano richiamo.
Ho coltivato così quell'illusione che potessi essere stata "comandata" dallo spirito del sangue che mi veniva dalla discendenza diretta da un uomo, che aveva portato dentro, dietro e sopra le spalle, e ancora sul collo, nel pensiero, vicissitudini di crudeltà inaudite.
Li avevo sentiti narrare sin da bambina e ammetto che spesse volte, soprattutto per l'ingenuità e la spensieratezza dell'età, non avevo dato importanza a quei racconti che mi parevano così estremi da poter essere davvero accaduti.
Eppure quelle storie ripetevano scene tratte da un'esistenza che ho avuto davanti ai miei occhi non molto a lungo.
Quelli che nascevano come resoconti, da parte di chi aveva provato sulla propria pelle tutto il dolore della guerra, spesso parevano anche a me elementi così crudi che sarebbe stato meglio dimenticare, insieme a chi ne aveva tanto bisogno.
Appartiene alla natura umana l'istinto di annullare i tormenti.
Quando qualcosa fa male, segna e deturpa l'anima deve essere cancellato, annullato. Come se non fosse mai esistito.
Anch'io, forse, nella mia piccola mente fanciulla prima e adolescente poi, avvertivo la necessità di partecipare alla rimozione di quel tormento, cercando di non dare troppa importanza a ciò che le vite di chi mi aveva preceduto, nella storia della famiglia, aveva dovuto sopportare.
Un atto dovuto, forse, furono tutti gli anni del silenzio.
O solo una mia resa codarda.
Era meglio non parlarne. E così se ne parlava poco.
Ma loro, i diretti interessati, i miei nonni, ogni tanto sottolineavano qualche attimo della vita quotidiana, che ci trovavamo a trascorrere insieme, con un'allusione, un breve intercalare o una narrazione tutto sommato più completa.
In quei momenti, noi che stavamo loro attorno ci concentravamo a provare ad immaginare quelle foschie, quel freddo, quella fame.
La fame, sì fu proprio quella parola che rimase impressa dentro di me, per lunghi anni. Quella fu l'immagine che dovette colpirmi, più di tutte le altre.
Tra tutte le brutture inaudite che la guerra porta con sé l'idea che si potesse arrivare a nutrirsi di bucce di patate, raccattate in occasioni fortunate, nascoste nelle tasche, fu quella che scosse di più le mie fantasie di fanciulla. Le immaginavo quelle bucce: mi pareva che danzassero attorno agli occhi di chi aveva dovuto ingoiarle. Le vedevo leggere, mentre ballavano, sì troppo leggere, come le calorie che offrivano a chi non aveva quasi più forze per consumarle.
Solo la terra pareva appesantire di tanto in tanto quella loro levità. Sì, la terra. Mi era stato spesso raccontato che le patate non venivano lavate, prima della sbucciatura.
Quanto era buona pure la terra!
Nella mia mente avevo costruito l'immagine della guerra vissuta, me l'ero rappresentata geometricamente. Un triangolo, ecco che cos'era, nella mia testa di bambina, la guerra vissuta sul campo. Un soldato era posto su un vertice. Nelle altre due estremità vedevo la moglie del soldato e una montagnetta di bucce, zozze di terra.
Concetta D'Orazio
A fine festività...Riprendiamoci il Natale!
Un estratto dalla mia raccolta di racconti "Riprendiamoci il Natale"
In
paese le persone si conoscono tutte.
Ci
conosciamo talmente bene che abbiamo accettato una sorta di catalogazione
immaginaria di tutti i vari compaesani.
L’archiviazione
è il risultato di anni di osservazione condotta da dietro alle finestre, oppure
dai tavolini del bar.
I migliori archivisti sono quelli che si affacciano dai balconi degli edifici, posti intorno alla piazza. Sono persone attente, ligie a quel dovere di selezione. Non mancano in ogni occasione di mettere un bollino di qualità sui singoli cittadini del piccolo paesello.
Il
catalogo dell’archivio prevede che i
compaesani siano prima isolati ciascuno nella propria area di competenza,
rilevata in base al sesso e all’età, adulta, giovane e quella dei bambini.
Seguono poi le distinzioni più specifiche che riguardano l’occupazione, gli
interessi.
La
colonna evidenziata, nell’immaginario schema di catalogazione generale, è
riservata all’attribuzione della qualità: adultera, tirchio, beone, viziosa,
pettegolo, megera e santona.
La
casella dei vizi, per fortuna, non ammette nomi di giovani e giovanissimi
infanti, anche se essi riceveranno poi il bollino di “erede-qualità”, calcolato
sui vizi dei genitori e dei parenti adulti prossimi. Così da essere indicati con perifrasi quali “il figlio di Smolletto
l’ubriacone” o “il nipote di Smezza la tettona”.
(Da Riprendiamoci il Natale, dicembre 2013)
venerdì 2 gennaio 2015
Lettere a Memena, da "Nero di memoria"
Filomena...la mia Memena.
Da quanto la mia bocca non le muore più là dove so che lei la vuole?
Non conosco più il tempo, quel sottile passaggio di momenti in cui trascorre la vita. [cit.]
Non conosco più il tempo, quel sottile passaggio di momenti in cui trascorre la vita. [cit.]
Nero di memoria, ad un anno dalla sua prima uscita.
Prometto dolcezza
L'eremo di Sant'Onofrio è una delle insolite tappe che Maria Celeste, la protagonista del mio nuovo libro La fragranza dell'assenza, deve raggiungere. La giovane obbedisce a strani ordini e ne segue con precisione le indicazioni.
Arrivata in cima al sentiero in salita, non potrà fare a meno di confondersi con l'atmosfera di silenzio e di riflessione cui questo luogo accompagna.
Ma chi aspetta la giovane, alla sommità di quella via?
La fragranza dell'assenza, qualcuno mi ha confidato di aver gustato qualche passo, accompagnandone la lettura con un brano audio nelle orecchie.
Prometto dolcezza.
C’è spazio davanti a me. E c’è purezza. C’è silenzio.
C’è spazio davanti a me. E c’è purezza. C’è silenzio.
I miei occhi si adagiano in lungo e in largo, perfezionando le traiettorie per non perdere tempo. Ora girano verso destra, camminano, arrivano fino ad un punto che pare più lontano.
Un ringraziamento a tutti voi
Voglio ringraziare tutte le persone che hanno scaricato il mio "Nero di memoria", per la prima volta in promozione gratuita, a più di un anno dalla sua prima uscita.
In "Nero" ho raccontato una storia che è di amore, un sentimento in nome del quale si superano le ipocrisie che nella vita incontriamo, nascoste sotto varie vicissitudini. E la guerra è una di queste. La più terribile.
"Nero di memoria" è un mio modesto orgoglio, dal momento che la prima ispirazione alla sua redazione nasce non da me, bensì da un ricordo che ha accompagnato la mia fantasia, da quando ero bambina. Una memoria i cui segni tangibili si sono dileguati nel tempo, così come le persone che li portavano addosso hanno lasciato la loro fisicità.
Le numerose copie che avete preso mi fanno ben sperare che la lettura potrà accompagnarvi per un momento.
Concetta D'Orazio
In "Nero" ho raccontato una storia che è di amore, un sentimento in nome del quale si superano le ipocrisie che nella vita incontriamo, nascoste sotto varie vicissitudini. E la guerra è una di queste. La più terribile.
"Nero di memoria" è un mio modesto orgoglio, dal momento che la prima ispirazione alla sua redazione nasce non da me, bensì da un ricordo che ha accompagnato la mia fantasia, da quando ero bambina. Una memoria i cui segni tangibili si sono dileguati nel tempo, così come le persone che li portavano addosso hanno lasciato la loro fisicità.
Le numerose copie che avete preso mi fanno ben sperare che la lettura potrà accompagnarvi per un momento.
Concetta D'Orazio
giovedì 1 gennaio 2015
Anno nuovo, estro nuovo
Agli amici, virtuali e reali, un abbraccio di affetto e tenerezza.
E le mie forse poco ragionevoli aspettative di entusiasmo le condivido pure con le persone che passano qui per caso.
A quelli che capitano per ventura, rivolgo il mio saluto di cuore.
Non le spartisco, invece, queste mie speranze, con chi fa finta di non vedere, non leggere, non partecipare a queste mie emozioni, pur passando nei miei quartieri che ho reso pubblici, buona parte del suo tempo, a fare pettegolezzo, a fare il verso e riecheggiare con pedissequamente discutibile ispirazione.
A loro rivolgo il mio primo non-augurio: che il nuovo anno possa essere foriero di quella singolarità e genuinità che ogni giorno viene presa in prestito dagli altri, senza neppure chiedere il permesso.
Che il 2015 porti tanta originalità per tutti!
Soprattutto per i bisognosi.
Cena di capodanno con "cicerchiata" finale
Oggi la tavola sarà parca, ma ormai è già gennaio.
Ieri, invece, vuoi per l'attesa, vuoi per tradizione, ci abbiamo dato dentro con un gran cenone.
Progetti per la sera non erano in forse.
La mondanità la rifuggiamo.
La neve, poi, è stata nostra alleata. Chiusi in casa, e il mondo fuori.
E così, grembiule a segnare il girovita, molletta a tener su i capelli, alle pietanze d'obbligo ho provveduto.
Cena semplice ma di gusto, tutto a modo e di gran gusto.
L'antipasto si è rivelato una sorpresa gradita a tutti: stelle di pasta pane, ricavate con l'aiuto di formine, con crema di peperoni e carciofi frullati.
Ieri, invece, vuoi per l'attesa, vuoi per tradizione, ci abbiamo dato dentro con un gran cenone.
Progetti per la sera non erano in forse.
La mondanità la rifuggiamo.
La neve, poi, è stata nostra alleata. Chiusi in casa, e il mondo fuori.
E così, grembiule a segnare il girovita, molletta a tener su i capelli, alle pietanze d'obbligo ho provveduto.
Cena semplice ma di gusto, tutto a modo e di gran gusto.
L'antipasto si è rivelato una sorpresa gradita a tutti: stelle di pasta pane, ricavate con l'aiuto di formine, con crema di peperoni e carciofi frullati.
Trovate la ricetta per la pasta pane a questo link
Formate le stelline, le ho messe a lievitare nuovamente per qualche ora e poi cotte al forno a legna. Le ho quindi farcite.
Primo piatto, chiaro, è ricco.
Lenticchie come se non ci fosse un domani, adagiate su secondo gustoso di carne.
La carne la sceglierete voi con cura. Io ho messo involtini di pancetta, con farcitura di mortadella.
Ho lessato le lenticchie, dopo averle tenute in ammollo per una mezza giornata. In un tegame fondo (quello per il ragù) ho soffritto la pancetta con la mortadella, arrotolata e chiusa con lo spago da cucina. Ho aggiunto carota e sedano, quindi passata di pomodoro. Ne è venuto fuori un buon sugo, con il quale ho condito le lenticchie.
L'ho detto già che da noi c'è la neve? Sì, l'ho detto.
Avevo esaurito (per i motivi di cui sopra) la scorta di pane ma questo non mi ha fatto impensierire.
Per fortuna posso contare sul forno al legna e sulla mia fedele macchina del pane.
Ho realizzato l'impasto, come da questo link.
Ed ecco il risultato.
Manca qualcosa? Ma sì, manca il DOLCE.
Potevo dimenticarlo?
Come concludere una cena così "leggera"?
Una buona dose di calorie mi pareva necessaria.
Scherzo! Ma se non abbondiamo a capodanno...
Uno dei dolci tipici del periodo invernale, in Abruzzo, è la cosiddetta cicerchiata.
In altre zone le palline che compongono la nostra cicerchiata sono chiamate struffoli.
La realizzazione è un po' lunga ma tutto sommato semplice.
Gli ingredienti vanno (poteva essere diversamente?) "ad occhio".
Per ogni uovo occorre mettere un cucchiaio di zucchero e uno di olio, da mescolare insieme.
All'impasto bisogna aggiungere quindi tanta farina quanta necessaria ad ottenere un composto simile a quello degli gnocchi.
Si dovrà poter lavorare la pasta: tenetene conto per regolarvi sulla sua consistenza.
Diciamo che per un cinque uova, necessarie per una porzione per otto/dieci commensali, saranno opportuni (approssimativamente) 700 grammi di farina.
Dalla pasta occorre ricavare tanti piccoli rotoli, da cui si ritaglieranno palline del diametro di circa 1 cm.
In una padella molto capiente dovrà essere portato ad ebollizione abbondante olio (di semi o di oliva).
In esso si immergeranno le palline per la frittura, che dovranno essere messe a scolare su carta assorbente, una volta raggiunta una leggera doratura.
In una capiente pentola occorre ora far liquefare una giusta dose di miele. Per cinque uova ne ho utilizzata una pari a circa 250 grammi.
È la volta di tuffare le palline fritte nella pentola con il miele e di rimestarle.
L'ultima operazione consiste nel dare forma alle palline incollate le une alle altre, grazie al miele appunto.
Potrete formare una ciambella (come nella foto di sopra) oppure inserire le palline all'interno di pirottini di carta.
Buon anno!
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