La storia (parte uno) - La fame e le patate
Ad ottobre 2013 terminavo e mettevo online il mio Nero di memoria, un libro a cui sono affezionata, dal momento che esso rappresenta un impegno che ho voluto prendere mea sponte sì, ma che ho portato avanti con la cura che sentivo essermi richiesta in qualche parte del mio "di dentro".
Da chi mi fosse reclamata questa preoccupazione, a dire la verità, non lo so bene nemmeno io.
Il bisogno di appuntare nasceva dentro, come per rispondere ad un lontano richiamo.
Ho coltivato così quell'illusione che potessi essere stata "comandata" dallo spirito del sangue che mi veniva dalla discendenza diretta da un uomo, che aveva portato dentro, dietro e sopra le spalle, e ancora sul collo, nel pensiero, vicissitudini di crudeltà inaudite.
Li avevo sentiti narrare sin da bambina e ammetto che spesse volte, soprattutto per l'ingenuità e la spensieratezza dell'età, non avevo dato importanza a quei racconti che mi parevano così estremi da poter essere davvero accaduti.
Eppure quelle storie ripetevano scene tratte da un'esistenza che ho avuto davanti ai miei occhi non molto a lungo.
Quelli che nascevano come resoconti, da parte di chi aveva provato sulla propria pelle tutto il dolore della guerra, spesso parevano anche a me elementi così crudi che sarebbe stato meglio dimenticare, insieme a chi ne aveva tanto bisogno.
Appartiene alla natura umana l'istinto di annullare i tormenti.
Quando qualcosa fa male, segna e deturpa l'anima deve essere cancellato, annullato. Come se non fosse mai esistito.
Anch'io, forse, nella mia piccola mente fanciulla prima e adolescente poi, avvertivo la necessità di partecipare alla rimozione di quel tormento, cercando di non dare troppa importanza a ciò che le vite di chi mi aveva preceduto, nella storia della famiglia, aveva dovuto sopportare.
Un atto dovuto, forse, furono tutti gli anni del silenzio.
O solo una mia resa codarda.
Era meglio non parlarne. E così se ne parlava poco.
Ma loro, i diretti interessati, i miei nonni, ogni tanto sottolineavano qualche attimo della vita quotidiana, che ci trovavamo a trascorrere insieme, con un'allusione, un breve intercalare o una narrazione tutto sommato più completa.
In quei momenti, noi che stavamo loro attorno ci concentravamo a provare ad immaginare quelle foschie, quel freddo, quella fame.
La fame, sì fu proprio quella parola che rimase impressa dentro di me, per lunghi anni. Quella fu l'immagine che dovette colpirmi, più di tutte le altre.
Tra tutte le brutture inaudite che la guerra porta con sé l'idea che si potesse arrivare a nutrirsi di bucce di patate, raccattate in occasioni fortunate, nascoste nelle tasche, fu quella che scosse di più le mie fantasie di fanciulla. Le immaginavo quelle bucce: mi pareva che danzassero attorno agli occhi di chi aveva dovuto ingoiarle. Le vedevo leggere, mentre ballavano, sì troppo leggere, come le calorie che offrivano a chi non aveva quasi più forze per consumarle.
Solo la terra pareva appesantire di tanto in tanto quella loro levità. Sì, la terra. Mi era stato spesso raccontato che le patate non venivano lavate, prima della sbucciatura.
Quanto era buona pure la terra!
Nella mia mente avevo costruito l'immagine della guerra vissuta, me l'ero rappresentata geometricamente. Un triangolo, ecco che cos'era, nella mia testa di bambina, la guerra vissuta sul campo. Un soldato era posto su un vertice. Nelle altre due estremità vedevo la moglie del soldato e una montagnetta di bucce, zozze di terra.
Concetta D'Orazio
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