mercoledì 23 aprile 2014

Di scrittura, di trasporto artistico e di esercizio

Una serie di confessioni. 
Non interessa a nessuno esserne messo al corrente, lo so, ma io ho una coscienza, che prima di essere coscienza letteraria, è consapevolezza dei miei limiti. 
E, pertanto, la mia correttezza mi porta a doverne rendere conto, fosse anche a quell'unico lettore capitato erroneamente su questo blogghino, dopo aver frettolosamente digitato, nel motore di ricerca,  la parola tiramisù.


Scrivo? Si scrivo.
Da quando scrivo? Non ricordo bene. Non lo ricordo perché lo scrivere qui inteso non è quello relativo all'incolonnamento ordinato e corretto di soggetti, predicati e complementi. La domanda  da quando scrivi? sottintende una risposta a metà tra il filosofico-esistenziale e il pensieroso-trascendentale, del tipo scrivo da sempre, oppure da prima di esistere.
Ho detto spesso che scrivere mi piace più che parlare a voce, forse per una sorta di mia intrinseca vigliaccheria: bisogna essere molto svegli e pronti quando si formulano parole che qualcun altro, l'interlocutore di turno, ascolta immediatamente. 
Parlare dunque è un azzardo impulsivo.
Quando le parole si buttano giù sul foglio, o si digitano sulla tastiera, rimane il tempo per ripensarle, riposizionarle, cancellarle oppure aumentarle.
Scrivere permette di riflettere a lungo. Parlare no.
Che poi c'è pure chi scrive come parla e chi farebbe meglio a parlare, prima di scrivere. Ma questo è un altro conto.

Fatte queste premesse, vorrei aggiungere un paio di notizie che serviranno a dare una brutta impressione di me. 
Lo devo fare, però, sempre a causa di quella correttezza di cui sopra. 

Pur amando tenere la penna in mano ed avvertendo il bisogno di usarla ogni tanto, al fine di trasporre su carta i miei pensieri o le mie emozioni momentanee, non posso tuttavia dire che questo mio operare sia eseguito in preda a chissà quali trasporti contemplativi, in balia di raptus di ispirazione celestiale.
Non sento di avere alcuna responsabilità di offrire servizio letterario a nessuno. Figuriamoci.

Ad oggi posso aggiungere che ritengo alquanto noioso, a tratti grottesco, tutto questo improvviso, inusitato, troppo sostanzioso bisogno di parlare ad ogni costo di libri e di cultura. E sì, perché di solito il dualismo, innaturale a dir di molti, libro-cultura tende a ricomporsi e a ricongiungersi, ai limiti dell'implosione metafisica. 
Come se per cultura non si intendesse niente altro che quanto è depositato nelle scritture. In tutte le scritture. 
Nelle scritture di tutti.
Come se, il solo fatto di dire di aver trascorso qualche mezz'oretta, ma anche qualche mezza giornata, con la penna in mano, possa garantire uno status sociale, anzi uno status-social, di tutto rispetto.
Io non sono capace. Non scrivo perché sento essere questa una missione né mi strappo le vesti, gemendo, allorquando si ricordano nomi illustri della letteratura.
È questa la verità. Buon per loro che sono stati bravi. 
Li apprezzo, li stimo. Non sento la necessità di esaltarli, né di presentarmi come ispirata da chicchessia.

Considero la scrittura tutt'altro che piacevole. Scrivere, per me, è esercizio. E l'esercizio non è mai spassoso.
Anche oggi, da adulta, mi capita spesso di sentirmi annoiata quando passo il mio tempo a rifilare le frasi, ad ammorbidire la sintassi. 
A volte penso che sarebbe meglio mettermi a fare una torta. 
Non ho nessuno che mi obbliga a questo genere di supplizio, sia chiaro. Scrivo perché in qualche modo devo pur passare il tempo. E, tutto sommato, perché mi piace farlo. 
Ho deciso di esercitarmi con le parole, così come c'è chi sceglie di fertilizzare il terreno in giardino per piantare le margherite oppure di intrecciare i fili nel punto croce.
Pur non considerandomi, ci mancherebbe, un'illuminata dal genio dell'arte redigendi, mi piace lavorare per migliorare.
Questa non è la solita espressione al limite fra il banale e il melodrammatico.
Mi piace "imperfettirmi", ecco. Pure quando faccio le torte.

Scrivere, come ogni trasporto artistico, presuppone passioneserietà, umiltà.
Prima di diventare opera d'arte, però, un prodotto ha assolutamente bisogno di lavoro di esercizio.
In giro per la Rete mi capita di vedere, tra gli autori nuovi, sicuramente passione (almeno è quello che dicono). Ho incontrato anche  molte persone serie. Con qualcuna di esse ho avuto modo di condividere opinioni, in merito alla buona resa della forma narrativa, scegliendo di fare esercizio comune.
Sono fiduciosa: l'umiltà esiste ancora.
L'importante è cercarla nei posti giusti.

Nella peggiore delle ipotesi posso sempre frequentare un corso accelerato di giardinaggio o di ricamo.


Concetta D'Orazio





martedì 22 aprile 2014

Sfumature originarie di significato - Cum dividere




Quante volte al giorno condividiamo? Foto, immagini, link e chi più ne ha più ne metta.
Il verbo condividere è forse uno di quelli che usiamo di più nel corso delle ore che trascorriamo all'interno dei Social.
Le espressioni che utilizziamo sono diverse (condividere, twittare, pinnare) ma il senso che diamo alle varie "operazioni" è lo stesso: mettiamo in comune qualche notizia o informazione, rendendone partecipi gli altri. Definiamo ogni volta qual è il pubblico che vogliamo mettere al corrente, scegliendolo fra le liste dei nostri amici oppure decidendo di essere aperti ad una comunicazione senza limiti.

Da dove ha origine il verbo condividere? 
Dal latino conosciamo il verbo divido, un verbo transitivo della terza coniugazione. Divido, is, divisi, divisum, dividere è il suo paradigma.
Come ogni parola, ha varie sfumature di significato. Divido è inteso nel senso di tagliare, troncare, ma anche di distribuire, nell'accezione più ampia di significato. Si utilizzava il verbo dividere, inoltre, per indicare una sorta di variazione studiata nell'organizzare qualsivoglia componimento.
Divido specificava pure una separazione, intesa nel senso di demarcazione.

La natura per così dire divisoria o separatrice dell'originario dividere latino, viene ricompensata in italiano dall'aggiunta del cum nella sua forma di preposizione indicante l'unione, la compagnia, la contemporaneità. E, dunque, il cum che predispone al rapporto, al dividere con, al mettere in comune.
In italiano condividere equivale a fare operazione di spartizione collettiva. 
Condividere un'informazione significa dividere quella stessa informazione, scritta, visualizzata, ascoltata, con chi si decide di voler rendere partecipi.

Ogni qual volta si opta di spartire con altri ciò che abbiamo al momento solo per noi, non facciamo altro che frammentare quella conoscenza nostra con un pubblico, largo o ristretto, di persone. 
Non facciamo altro, pertanto, che aggiungere il cum all'originario dividere.
Dal latino al Social, il passo è molto più breve di quanto si pensi.

Concetta D'Orazio

sabato 19 aprile 2014

Tiramisù - Consigli


Domani è Pasqua e io propongo la ricetta di un dolce tutto sommato generico, quale il tiramisù appunto. Lo so, state pensando cose non piacevoli.

Avete ragione sul fatto che domani e Pasqua, avete ragione sul fatto che il tiramisù è un dolce molto comune, che viene cioè preparato sempre e, dunque, non è proprio originale. E certo, qualcuno potrebbe pure dire ma che bella pensata!. 

Ragionate con me: il tiramisù non è forse il dessert che vi permette di risolvere le situazioni più complicate? Siete invitati a pranzo da amici e dovete portare un dolce? Presto fatto: con il tiramisù non si sbaglia.
Avete ospiti e volete terminare con un dopo cena non troppo impegnativo? Avete passato il pomeriggio a cucinare e non ne potete più!? Eccolo lì, il dolce è pronto e veloce.
Insomma, ammettetelo, ammettiamolo, questi quattro biscotti inzuppati nel caffè e contornati dalla crema formaggiosa vengono sempre in aiuto, nelle più svariate occasioni.
Perché non approfittarne anche oggi? Al limite, se dovesse avanzarne, potrete sempre portare il tiramisù con voi nella gita del lunedì. 
Sarà molto difficile però: il tiramisù non avanza mai!

Non vi scrivo qui la ricetta "perfetta" perché temo che non esista. Mi limiterò solo a dire come io realizzo questo dolce, aggiungendo qualche piccolo consiglio e  qualche trucchetto che sono riuscita ad acquisire, dopo anni e anni di esercizio nella preparazione.

Ingredienti

3 uova 
8 cucchiai di zucchero
1 vaschetta da 250 gr. di mascarpone
1 confezione di panna da montare
Un pizzico di sale
Due bicchieri di latte zuccherato/Un bicchierino di liquore a scelta.
Una confezione di savoiardi
Abbondante caffè zuccherato per inzuppare i biscotti
Cacao amaro in polvere 

Preparazione

Preparate il caffè, zuccheratelo e fatelo raffreddare in una ciotola. Aggiungete i due bicchieri di latte zuccherato oppure il bicchierino di liquore.

Prendete le uova e rompetele, separando i bianchi dai tuorli. 
Ponete i tuorli in una capiente vaschetta, versate i cucchiai di zucchero e sbattete il tutto con una frusta.

Ponete in un altro recipiente i bianchi, mettete un pizzico di sale e montate a neve molto soda. Fate attenzione: questo è un passaggio molto importante al fine di ottenere una crema densa.

Spesso è difficile montare gli albumi a neve, lo so. Il primo consiglio che voglio dare è quello di tirare le uova fuori dal frigo almeno  due o anche tre ore prima di iniziare a preparare il dolce. Vedrete che riuscirete ad ottenere meglio una crema densa.

Aggiungete i bianchi montati a neve al precedente composto dei tuorli e zucchero.

Uno dei dubbi che spesso tormentano chi si accinge a preparare il tiramisù è: le uova crude, come renderle sicure? Io uso questo metodo per ottenere una sorta di pastorizzazione casalinga: faccio bollire un paio di cucchiai di latte e poi li verso così bollenti nel composto delle uova e zucchero, mescolando.

Montate ora la panna a neve. Per ottenerla bella densa è necessario aggiungere un pizzico di sale.

Inglobate nel composto di uova e zucchero prima il mascarpone, poi la panna. Continuate a mescolare, facendo molta attenzione a non "smontare" la crema.

Prendete ora i savoiardi, inumiditeli nel liquido di caffè e latte. Fate attenzione a non impregnarli troppo, altrimenti rischiate di ottenere un tiramisù troppo molle al palato.
Adagiate i savoiardi in una teglia alta. Mettete sopra ai biscotti uno strato di crema.
Procedete così, fino ad ottenere tre o quattro strati.

Spolverate infine con il cacao amaro.
Prima di servire è bene tenere il dolce almeno un paio d'ore in frigo, meglio quattro o cinque.










Biografia ragionata

Presentarsi non è mai facile.
Qualcuno magari ci riesce con grande naturalezza. 
Non è il mio caso e dunque cercherò di farlo nella maniera più superficiale ed evasiva possibile. 
Tanto non credo interessi avere notizie dettagliate sul mio conto. E io non ho cose importanti da dire su di me. In tutta sincerità.
Il mio contorno, però, un po' ve lo racconto.

Sono nata in un momento delicato, sotto diversi punti di vista, quando, nel periodo a cavallo fra la fine degli anni '60 e gli inizi degli anni 70, l'uomo faceva i suoi primi passi sulla luna e i giovani erano impegnati nelle contestazioni studentesche.
Quando, qualche anno più tardi, qualcuno continuava a ripetermi che sono nata in un momento delicato, io mi ostinavo a pensare che lo dicesse perché fui proprio Io che vi trovai i natali, mica per il fatto dell'allunaggio o per il '68 contestatore.
D'altronde i bambini sono sempre un po' narcisi.

Come tutti i piccoli del tempo, ho avuto la fortuna di godere di quelle che all'epoca ci sembravano conquiste meravigliose: la televisione e l'apparecchio telefonico in casa, pomposamente posizionati in angoli illustri dell'abitazione, la prima nella stanza più importante e il secondo sul mobiletto del corridoio, rigorosamente sul centrino ecru all'uncinetto.
Mentre i nostri genitori iniziavano a prender confidenza con la cornetta, noi guardavamo i primi cartoni animati, arrivando trafelati a casa, subito dopo il catechismo, per non perdere il programma pomeridiano per bambini. L'unico.
Allora tutto era unico, non c'erano "cose doppie": avevamo una sola casa,  per molta gente, una sola tv, con un solo palinsesto, un solo cappotto buono a testa.
E pure una sola maestra.
Non ci sembrava di essere però così annoiati in mezzo a tanta costrizione di scelta.
Al contrario, sapevamo giocare pure con la noia, trasformandola in improbabili strategie di mosse e di percorsi, con i tappini di metallo della gazzosa.

Da adolescente ho finalmente conosciuto la vita cittadina, io che non mi ero mai  mossa fuori dalle vie e dai vicoli del mio piccolo paese d'origine. E con la cittadina ho conosciuto pure le scuole superiori, quelle di cui i ragazzini più grandi ci parlavano, fissandoci cacofonicamente con superiorità (e come altrimenti?), «Vedrai alle superiori che casino».
Sì, perché allora si ragionava inflessibilmente per scomparti differenziati, che più stagno non si può. Si era trattati a seconda del grado di scuola di appartenenza: c'erano quelli delle elementariquelli delle medie e quelli delle superiori.
Proprio in quel tempo quando le scuole si chiamavano tutte con il nome appropriato al grado, e non lo cambiavano ogni semestre. I licei si chiamano licei, gli istituti tecnici si chiamavano istituti tecnici.
Persino l'asilo si chiamava asilo.
Proprio in quel tempo in cui gli insegnanti erano in pianta pressoché stabile, o duravano almeno per un intero anno scolastico.
Conobbi allora la letteratura e le lingue classiche, il latino e il greco ed iniziai a frequentarle insieme con l'altra lingua che è stata per me di vitale importanza, il dialetto abruzzese.
Per fortuna quest'ultimo idioma era vivo e vegeto.
Alcuni mi dicevano che stavo sprecando il mio tempo, studiando, da inguaribile (nel senso che ero proprio senza speranza) secchiona, lettere di strani alfabeti, distici di inusuali composizioni, declinazioni di assurde lingue morte. Io mi chiedevo come mai le avessero riesumate, essendo utili a niente. Ma continuavo a studiarle bene, non so per quale motivo.
Non si sa mai, mi dicevo.

Più tardi capii qual era quel motivo: la mia irragionevole passione per tutto ciò che sapeva di vecchio
D'altronde io stessa sono sempre stata un po' anacronistica. E questo la dice lunga sui miei gusti personali, antichità classica e pettinatura comprese.
Anche la mia consunta borsa modello-tascapane sembrava alquanto inopportuna per quei tempi, quando con lei mi aggiravo per i vialetti della Sapienza, stando ben attenta a non alzare gli occhi verso il volto della statua della Minerva, soprattutto nell'imminenza di esami, fondamentali e complementari.
Mettevo la tascapane nello zaino più grande quando tornavo a casa dai miei, ad ogni festa comandata. La nascondevo per bene. 
Non si sa mai, ancora ripetevo.
Quel fascino per il sorpassato continuò a perseguitarmi, anche se non ne ero consapevole. Ci sguazzavo dentro così allegramente che, come tesi di laurea, preparai un lavoro su La monetazione di Tiberio.

Carmina non dant panem. Ma io sono sempre stata masochista, forse per quell'ambizione al vecchio che mi ha contraddistinta sin da giovane
Con talune convinzioni, non di aspirazione alla stabilità economica, ma con il vagheggiamento di poter trasmettere i prodotti del sacro furore poetico (degli altri) ad attenti discepoli, mi lasciai coinvolgere per diversi anni in un meccanismo contorto. 
Questo gioco prevedeva l'assorbimento di grande tempo, dopo anni passati sui libri, a preparare difficilissime pratiche, a compilare sofisticatissimi moduli pieni zeppi di risposte multiple, quasi a trabocchetto. Trascorrevo ore ad interpretare codicilli, a spuntare la A, la B. 
Sulla C avevo sempre perplessità. Sempre. Ad ogni aggiornamento.
Me la sognavo pure di notte, quella C.
Il premio in palio, finalmente, consisteva nella possibilità di poter essere inserita in una coda interminabile ed inestinguibile di candidati, aspiranti professori, desideranti cattedra. 
Alla fine di quel gran lavoro di composizione, invio plichi con raccomandata A/R, controllo delle graduatorie, risposte ai telegrammi, giungeva, deo gratias, il grande ingresso in aula. Qui però, per via della brevità dei contratti a tempo determinato (pure di un paio di ore in un solo giorno), non si faceva in tempo a dire «Buondì» che già si doveva aggiungere «...è stato un piacere avervi conosciuti».
Beh, conosciuti, diciamo intravisti di sfuggita. Almeno quelli delle ultime file.

Negli anni, quell'amarezza si accumulò insieme ai punti ottenuti dai bollini delle supplenze. E l'amarezza andò a sommarsi agli inevitabili acciacchi dell'età. I miei poi arrivarono con anticipo, eh, non so bene per quali inusitate combinazioni del destino. 
E non vedo il motivo per cui io debba iniziare a presumerne adesso.
Tutto ciò mi fece scegliere, con indiscutibile soddisfazione, vita di dedizione alla causa della famiglia. Sì, quella del tipo «Hai messo la canottiera?» oppure «Domani dovrò ricordarmi  di rinfrescare la pasta madre».

E fra un tuffo nel sugo della domenica e un pre-ammollo di sicurezza, nel 2012 scoprii il Self-Publishing.

Il resto lo trovate tranquillamente in Rete.
Ma io non vi ho raccontato niente.


Concetta D'Orazio

mercoledì 16 aprile 2014

Chi era Ines?

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Chi era Ines? Cosa sentiva nella sua pancia? A chi appartenevano quelle voci? Nomi del passato e nomi di un presente non ancora troppo passato, nomi antichi, nomi inconsueti. Urlavano quelle voci. Ines non poteva metterle a tacere. Non doveva essere sorda alla loro chiamata; le avrebbe coperte per sempre.
Iulia chiamava Atte e poi entrambe gridavano verso Ines. 
Anche Iolanda  ascoltava le altre ma non poteva far nulla. Ora lei doveva pensare alla sua storia; era lì, legata, in mezzo alle fascine, guardava tutti che si agitavano intorno a lei.
E intanto Adele e Dora correvano. Non sapevano bene cosa avrebbero trovato. 
Dov'era finita Isabella?
Iulia, Atte, Iolanda, Adele, Dora, Isabella. E Ines.
Sette donne e il loro giro nella storia.
Ines decide di ascoltare le voci che urlano nella sua pancia, rivendicando la propria identità, manifestando la propria forza che attraversa i secoli, dall’antichità classica, passando per il Medioevo, fino all’età contemporanea.
Ines darà voce alla sua pancia e farà parlare quelle donne. Le loro storie si animeranno, incrociandosi in una danza senza tempo. Ines e le altre donne, le sette donne, uniranno le loro forze contro la violenza e le consuetudini delle loro epoche.

Sette giri di donna è gratis nei giorni 17 e 18 aprile 2014

Virgola con brio




La virgola è un'entità a sé stante che, a volte, può (potrebbe) persino trasgredire le regole ferree della punteggiatura. 

La virgola è in mano all'autore così come un plettro fra le dita di un chitarrista; essa è una pausa necessaria e la necessità, si sa, può essere calibrata sulle idee di ognuno, non in maniera determinata e aprioristicamente. 

Chi scrive sa quando è opportuno fermare il respiro. 
L'importante è che egli sia consapevole delle "variazioni sul tema" e le utilizzi con coscienza.

lunedì 14 aprile 2014

Le patate infarinate, col vinello van gustate








Questa è la prima ricetta che illustriamo un po' così.
Di patate, di olio, di sale  hanno scritto a iosa, e quanto basta. Hanno fatto paste, hanno impiattato composizioni.
Come se per mangiar servissero le illustrazioni e, dunque, per preparar si abbisognasse di giustapposizioni.
Hanno pure ideato trasmissioni.
Ma tanto alla pancia, credete a me, servono solo espansioni.
Passiamo ora a parlare di cose importanti. Le rime le lasciamo ai cantanti.

Diciamo di queste patate infarinate. Elenchiamo gli ingredienti preparati poco prima oppure improntati alla bisogna.
Di farina, al ver, ne serve poca. Solo al nome della ricetta è indispensabile.
Le ho dette "infarinate" per farle apparir più belle, ma chiamarle avrei potuto pure incamiciate.
Eh sì, perché una camicia la mettono, queste mele di terra, pure quelle che provengono dall'Inghilterra.
Ora sono ritornata alle rime, lo vedo. D'altronde astenermi non so, lo ammetto. E voi ci state pure prendendo gusto. Scommetto!


Ingredienti

Gli ingredienti sono semplici, tanto qua, la qualità che a noi interessa è la semplicità.
Prendete allora un quattro o cinque grosse patate.
Due uova e pangrattato per tessere la tela per la camicia.
Prendete pure dell'olio e un pizzico (saporito) di sale.
Un rametto di rosmarino.
Uno spicchio d'aglio, meglio se due.
Due o tre peperoni secchi.
Altre spezie o intrugli non servono, se le patate sono già belle. Nel caso esse fossero un po' attempate, usate pure il pepe ma lasciate stare le besciamelle!

Preparazione

Prima una e dopo l'altra, dovete tuffare in acqua le mele di terra: devono essere mondate dal colore, dal sapore e dalla polvere della originaria zavorra, la terra appunto.
Dopo averle risciacquate, le patate van denudate. Togliete quindi la buccia.
Ora sono nude, tagliatele a tocchetti piccoli ma non proprio piccini troppo. Diciamo un po' più grandi di una noce.
Lo so, pelare le patate vi procura noia.
Pensate allora al desco, agli invitati e alla loro gioia!
Nel mentre siete impegnati a far operazione di pulizia, avrete messo a bollire, a parte, un grosso pentolone, con acqua salata. Quando quelle, le patate, saranno belle lavate, pelate e denudate, andranno a mollo nell'acqua del pentolone.
Una decina di minuti sono sufficienti. E nel mentre fate bollire potete pure andare a lavarvi i denti!
Scolate quindi le poverelle.
Preparate la pastella. Da una parte mettete le uova, senza scordarvi di salare. In un altro piatto ponete il pangrattato misto alla farina. Butterete le patate prima nelle uova, poi le passerete nel piatto.
Eccole finalmente in camicia!
Le patate, dunque, sono infarinate, pronte per essere buttate in una padella con olio bollente bollente, aglio, peperoni e quindi...mangiate!






mercoledì 9 aprile 2014

La solitudine policroma delle parole








Nel passaggio dalla versione originaria al volgare, e quindi all'italiano, la lingua latina sembra aver perso la primaria abbondanza di sfumature del senso da attribuire ai singoli termini.
La natura variegata delle possibilità di significato ha subito sicuramente una limitazione, nel passaggio all’idioma neolatino.

Tale limitazione delle accezioni delle parole prosegue di pari passo con l’”ammodernamento” della lingua, quasi che il bisogno odierno di espressione possa tendere all’essenzialità della parola.
La lingua italiana, infatti, quella più antica e oggi vista come fuori moda e disusata, conserva ancora, nella sua purezza, le caratteristiche sfumature del suo illustre antenato, il latino appunto.

Oggi, però, non si avverte più il bisogno di indicare un oggetto, un’azione, un’emozione attraverso un vocabolo, o una combinazione di vocaboli, che meglio possa caratterizzarli.
L’odierno ciao, tanto per fare qualche esempio, ha quasi sostituito del tutto, nel gergo dei più giovani, i vari buongiorno, buonasera, arrivederci, bentrovato,  benvenuto.
Ecco, per salutare una persona che va, che arriva, che si attarda con l’orario o che è mattiniera, è sufficiente pronunciare quattro lettere, ciao.
Anche i verbi che indicano un’azione di spostamento da un luogo ad un altro, da una all’altra condizione, si sono, per così dire, ridotti o sono confluiti nel semplice e globale andare. Oggi si va al lavoro, si va a pranzo e cena, si va dal dentista, si va in ritardo all’appuntamento, laddove ieri ci si recava al lavoro o ci si appropinquava al desco per la cena. Poteva accadere, allora, che ci dovesse avviare o che ci si attardasse, si indugiasse, si procrastinasse.

E precedentemente, le fantasie semantiche si adattavano ancora di più al bisogno. Prima di scegliere quale verbo potesse esprimere lo spostamento che si voleva notificare, in latino, occorreva analizzare pure da che verso procedesse tale movimento. Le preposizioni, ad esempio, puntualizzavano il senso del verbo. Così veniva utilizzato abeo per indicare un allontanamento da un determinato punto. Se invece si voleva sottolineare un movimento che portava all’interno di un luogo, la forma più adatta era quella data dal verbo ineo. Il verbo eo e i suoi composti non erano i soli a poter specificare l’azione del muoversi. Le possibilità erano infinite. Così ad esempio, il verbo digredior designava una separazione non solo fisica ma anche intellettuale da un determinato punto: da cui la nostra digressione. Si utilizzava dispereo per indicare un decadimento verso la rovina, quella che noi chiamiamo disperazione.

In conclusione, oggi siamo più moderni, più sbrigativi, quasi che antichità si identifichi con lunghezza e noia e modernità con brevità e velocità.
Mi chiedo spesso come sia possibile rinunciare così a cuor leggero alla gamma infinita di tonalità semantiche che le parole racchiudono in sé.

Per questo motivo mi piace spesso ricordare la policromia non solo della lingua italiana un po’ datata ma addirittura quella del latino.
Mi rendo conto, tuttavia, che l’apprezzamento di quella policromia è destinato inevitabilmente ad essere goduto in solitudine.


Concetta D’Orazio











martedì 8 aprile 2014

La condivisione veloce delle informazioni




La lingua latina, dicevo tempo fa, è viva e fresca. 

La cultura classica non soltanto ha tratto giovamento dalle nuove possibilità offerte dalle moderne tecnologie, in termini di archiviazione e conservazione delle notizie, delle fonti e dei reperti storico-archeologici ma riscopre nuove splendore, per ciò che concerne l'uso, direi quasi redivivo, delle sue potenzialità.

Le risorse che un tempo, non molto trascorso, erano limitate a gruppi ristretti di studiosi del settore, quali la consultazione di archivi e biblioteche, ora sono alla portata di tutti e fruibili in larga misura gratuitamente. Possiamo disporre dei testi in latino e greco antico, della loro traduzione. Abbiamo la fortuna di poter condividere immagini, pensieri, opinioni sugli argomenti inerenti alla cultura classica.
Esistono dizionari online, enciclopedie gratuite, pure in lingua antica. 
Possiamo addirittura usufruire di applicazioni che ci rendono più semplice scrivere lettere ed accenti.

E soprattutto ci sono le persone che si confrontano, in un dibattito pressoché immediato, pur nei limiti delle varie progressioni del fuso orario.
Come sarebbe stato possibile, poco più di un decennio fa, dissertare di un qualsiasi argomento e farlo in lingua latina? Lo si poteva fare attraverso uno scambio epistolare privato o come trattazione di tipo specialistico su scritti di settore. 
I tempi erano lunghi, aumentati dalla distanza delle informazioni e dunque dalla difficoltà di condivisione.

Oggi è sufficiente un click e e spartire con altri il risultato delle proprie ricerche, o semplicemente dei contenuti trovati in Rete, è atto immediato.
Tutto questo è possibile in ogni ambito scientifico. 
Lo è pure in campo umanistico.
Oggi ci si può loggare ad una qualche piattaforma di "scambio sociale" e trovare persone che salutano con ave atque vale, oppure ringraziano con un tibi gratias ago

L'antico che ritorna?
Direi piuttosto l'antico che si muove e diventa tangibile.



Concetta D'Orazio


venerdì 4 aprile 2014

Virgola con brio

La virgola è un'entità a sé stante che, a volte, può (potrebbe) persino trasgredire le regole ferree della punteggiatura. 

La virgola è in mano all'autore così come un plettro fra le dita di un chitarrista; essa è una pausa necessaria e la necessità, si sa, può essere calibrata sulle idee di ognuno, non in maniera determinata e aprioristicamente. 

Chi scrive sa quando è opportuno fermare il respiro. 
L'importante è che egli sia consapevole delle "variazioni sul tema" e le utilizzi con coscienza.

mercoledì 2 aprile 2014

Il latino, mai più vivo di adesso




La prima volta che scrissi "latino" nella barra di ricerca di Facebook lo feci quasi per scherzo. Figuriamoci, una lingua morta sulla Faccialibro!Quello che scoprii, inutile dirlo, mi piacque molto. Trovai comunità virtuali di studiosi e appassionati che componevano post in latino, condividevano link a pagine di cultura classica, di filologia, di storiaE fu così che vidi, forse per la prima volta, il latino non più rigido e senza tempo, men che meno inanimato, vivacizzarsi di nuova vita, quasi come alla fine di un letargo temporaneo.Le declinazioni iniziarono a ravvivarsi davanti ai miei occhi: la prima, stringeva l'occhio alla terza; vedevo il cum narrativo inseguire il de, che a sua volta non si staccava mai dall'ablativo. Ed esso correva. Correva così velocemente da rimanere sempre in testa. In assoluto. Un ablativo assoluto insomma.
Erano tutti affannati ma contenti.
E poi zompettavano, sperimentando un girotondo di quelli di tipo classico: utor, fruor e fungor si tenevano per mano, intonando strane melodie. Attorno ad essi. si succedevano, in ordine e con grazia, tutti i tipi di proposizione: c'era la consecutiva e c'era la finale. Vedevo poi l'ut con il congiuntivo. Ognuno provava passi nuovi ma tutti avevano un solo timore e rispettavano un solo comandante: la consecutio temporum.La lingua la conoscevo ma non riuscivo ad immedesimarla in quel contesto. E chi l'avrebbe mai detto? Quelle parole, quei costrutti, lì, proprio lì. Sulla Faccialibro!Quello che fu per me ancor più sorprendente è stato trovare persone che si esprimevano in lingua latina come se così parlassero correntemente tutti i giorni, a casa propria. Salutai e mi presentai. Da quel momento entrai anch'io nel foro latino più virtuale che avessi mai potuto immaginare.In un secondo tempo ho scoperto che di gruppi di "latinisti" ne esistono diversi su Facebook. Ad essi sono iscritti persone che abitano in diverse parti del mondo. Incredibile. Loro si salutano, si nominano, si ringraziano. Sempre in latino.La scelta di scrivere in questa lingua li ricompensa con la possibilità che essa ha di esprimere le sfumature di significato, di uso e di  direzione delle parole.Avete presente quante sono le soluzioni, tanto per fare un esempio, per il sintagma verbale  "dico"? Utilizziamo aio, ma anche dico. Sceglieremo di scrivere loquor, fero, inquam, narro  e altro ancora, a seconda di quanto viene riferito negli altri segmenti della frase.Il latino originario si presta ad indicare le azioni, i pensieri e le emozioni di ognuno in maniera variegata. Certo, dobbiamo anche pensare che, tuttavia, questa lingua ha pure i suoi annetti. Se li porta bene, forse anche troppo, ma qualche volta ha necessità di essere impinguata di nuovi vocaboli, laddove gli originali non siano adatti a delimitare e determinare con precisione situazioni e prodotti del presente. Gli amici latinisti però non si perdono d'animo e cercano di aggirare l'ostacolo, ricorrendo a perifrasi appropriate o a vocaboli di nuovo conio. In situazioni estreme adattano anche le parole primitive a circostanze moderne.Capita che le belle foto che qualche amico ha pubblicato si trasformino in pulchrae (o pulcherrimae all'occasione) imagines. Solo per fare un esempio.Mi rintrona nella testa quella brutta figurazione che delle lingue classiche ci hanno dato, definendole "lingue morte". Mi chiedo: come si fa a definire esanime un idioma che è invece così pieno di spirito? Che accomuna? Che favorisce?In rete il latino sta recuperando tutta la sua vivacità.E che questo sia chiaro, da cum dividere, insomma!Concetta D'Orazio