sabato 31 ottobre 2015

Quando le lingue classiche ci aiutano: αὐτός, ἐκεῖνος, οὗτος


La lingua italiana è compiuta: non esiste emozione, concetto, espressione, pensiero che non possano essere resi con una parola oppure con una articolata perifrasi. 
Insomma, nella redazione, niente deve essere lasciato al caso perché il caso produce confusione e la confusione genera errori.

Chi scrive per un pubblico deve necessariamente essere consapevole della grande ricchezza di sfumature che il nostro idioma ha.
A maggior ragione, chi scrive per trasmettere emozioni non può ignorare la regola che io giudico fondamentale per la redazione di un testo: impegnarsi a rendere viva e vera l'immagine che stiamo dipingendo con la penna.
E come possiamo rispettare questa regola? L'unico strumento che abbiamo è la parola

Della parola dobbiamo utilizzare tutta la profondità. Così dobbiamo godere di tutta la generosità.
Pure della rotondità toccherà tenere conto.

La ricchezza della lingua va, tuttavia, perdendosi sempre più nell'esperienza molto sintetica della comunicazione attuale.
Avevo già espresso le mie preoccupazioni a riguardo, in un articolo.
In un altro brano, invece, mi ero soffermata ad analizzare l'impoverimento della lingua italiana, già per altro "assottigliata" nelle gradazioni di significato, rispetto al latino.

Per evitare di proseguire lungo questa via decadente di riduzione e impoverimento dei significati e dei significanti toccherà tenere presente, come al solito, la ricchezza semantica delle lingue classiche. Inutile dire che sarebbe opportuno anche imitarla questa ricchezza o, quanto meno, adoperarci a non farla andare perduta.

Qualche tempo fa, riflettevo su quanto noi "moderni" stiamo diventando pigri nel cercare soluzioni alternative a termini di uso frequente. Fra questi, il primo posto ahimè in quella triste graduatoria di depauperamento, ci sono senza dubbio i pronomi, soprattutto i dimostrativi.

Il pronome più utilizzato (anche troppo) è: questo
Siamo diventati così indolenti che lo adoperiamo sempre, a volte addirittura in sostituzione di quelloquasi che la parlata veloce e quotidiana ci autorizzi a non tenere conto della differenza semantica.

Quante volte è capitato di ascoltare o leggere frasi del tipo:

Cosa mi dici di questo? 

All'apparenza la frase sarebbe corretta, se non fosse che colui che la sta pronunciando si riferisce ad un uomo (o ad un oggetto) non presente o comunque non vicino agli interlocutori, bensì lontano nel tempo e nello spazio. 
La giusta espressione sarebbe stata dunque: 

Cosa mi dici di quello?

Ribadisco che per cercare di arginare il fenomeno dell'impoverimento della lingua italiana, occorre tenere presente l'esperienza delle lingue classiche.
A proposito dei pronomi dimostrativi, in greco e in latino si utilizzavano diverse forme per le più svariate occasioni.

In particolare il greco, oltre ai due pronomi corrispondenti ai nostri questo quellohic ille in latino, ne aveva anche altri.

ἐκεῖνος, ἐκείνῃ, ἐκεῖνο = quello, quella, quella cosa = ille, illa, illud.
οὗτος, αὕτη, τοῦτο questo, questa, questa cosa = hic, haec, hoc; iste, ista, istud.
ὅδε, ἥδε, τόδε = questo, questa, questa cosa = hic, haec, hoc.
αὐτός, αὐτή, αὐτό = stesso, stessa, stessa cosa = ipse, ipsa, ipsum.

A questi si aggiungevano altri pronomi. Vale la pena di ricordarne alcuni: τοσοῦτος (tanto grande), τοιοῦτος (tale), τηλικοῦτος (di tale età) e così via.

Ho portato l'esempio dei pronomi ma potrei aggiungerne molti altri, a dimostrazione che, purtroppo, con l'avanzare dei tempi, l'espressione verbale perde sempre più di intensità e di ricchezza lessicale.


Concetta D'Orazio


venerdì 30 ottobre 2015

Si può scrivere su tutto, di tutto. Anche un gabinetto può essere di ispirazione.
L'importante è cercare sempre le parole esatte. I termini devono rintoccare puntuali. Accrescitivi e diminutivi devono scandire il ritmo, senza essere audaci. Ricorrere a malsane abitudini interpuntive ci mette in grave rischio. E io sono diventata fiacca e logora, a furia di controllarle.


#scrivoindipendente

mercoledì 28 ottobre 2015

Tepori abruzzesi di castagne nel caminetto



Il cielo si raggruma, la temperatura si adatta a quel grigio. 
L'atmosfera si riappacifica con le immagini circostanti: il sole al momento non brucia, ci fa solo da candela per la fine del pomeriggio.


Anche lo stomaco sente di essere chiamato a nuove responsabilità, per garantire energie che, nei tempi estivi, avevamo dovuto accantonare. Sì, proprio quelle forze che adesso ci fanno un po' emettere un leggero tremore, al contatto con il fresco di fuori. Ci servono quelle robustezze, ma abbiamo bisogno pure di rifocillarle.


Insomma, lasciamo perdere le chiacchiere da letteratura. Fuori c'è il grigio, c'è il fresco e la nebbia non perdona. 
In queste condizioni, cosa fa un abruzzese, a metà pomeriggio? Ma pure a sera tarda. Non dico a mattina.

Ecco, un abruzzese tira fuori la pentola bucherellata, mentre ha già preparato la brace viva del caminetto.
Con mano esperta inizia ad incidere le castagne, con la precisione ormai acquistata con l'esperienza di anni e di generazioni passate. 
Una alla volta e poi le butta dentro al prezioso contenitore.

Lo appoggia quindi su quella fiamma vivace ma non troppo altezzosa. 
E si siede ad aspettare. 
Con decisione afferra subito dopo il manico della padella e si ingegna ad agitare il frutto dentro contenuto, facendolo saltare con allegria, insieme alle compagne.

Trascorrono così i minuti ma l'abruzzese sa che deve vigilare. Un po' di attesa e un po' di ballo frizzante per le castagne. 
Un momento in più potrebbe essere fatale.

D'accordo, ci vuole molta accortezza ma la castagna arrosto va sul fuoco del camino. 
E da nessuna altra parte.

Concetta D'Orazio

domenica 18 ottobre 2015

Modulare la voce: dalla προσῳδία all'accentus

Quando incontriamo un accento, scrivendo o parlando, atteggiamo la voce, la moduliamo facendo scivolare il ritmo su una vocale  o, meglio, tagliando quasi bruscamente l'intonazione della voce. 
È un'abitudine naturale per noi, non ci facciamo caso perché ormai il nostro orecchio è avvezzo a individuare una determinata parola e il suo significato, a seconda della "marcatura" della voce.

Vi siete mai chiesti quale sia l'origine del termine accento?

In latino accentus è un sostantivo di IV declinazione. Il termine è cosi composto: ad + cantŭs.

Cantŭs, cantūs è un sostantivo maschile di IV declinazione che individua un prodotto musicale (canto, suono, musica, poesia).
La preposizione ad, in questa situazione, indica un moto a luogo o di fine.
Dunque l'accentus si muove verso la melodia, è un segno (grafico e orale) finalizzato ad ottenere un suono armonioso.

L'accento aveva ed ha una funzione precisa, quella di accompagnare, attraverso l'elevazione della voce, ad una resa sonora marcata.

Non a caso l'accentus latino era la traduzione di προσῳδία greca, termine che aveva appunto lo stesso significato, dato dall'anteposizione della preposizione προσ ᾠδή (canto). 

Tornando alla lingua italiana, l'accento può sottolineare diverse intonazioni e differenti significati della parola, all'interno o alla fine della quale è posizionato. Pertanto esso ha chiaramente un'importanza fondamentale.

Soprattutto per quei segni posti a fine di parola: sono preziosissimi, non fatene un uso sconsiderato, collocandoli magari a supplire persino l'apostrofo!

Concetta D'Orazio




venerdì 16 ottobre 2015

Riprendiamoci il Natale



Strana faccenda quella del Natale, nei nostri ricordi lontani che abbracciano gli anni 70/80.

Quanto aspettavamo quel momento? Quanto cullavamo l'attesa di quel mese di dicembre, nei nostri piccoli pensieri bambini?

La raccolta Riprendiamoci il Natale comprende racconti che, per la loro natura di essere, vogliono quasi mettere a paragone quei tempi con quelli odierni.


Mi guardo le scarpe. Sono belle, bianche con due strisce verticali ai lati. A scuola mi hanno detto che non sono di marca. Non so nemmeno che significa. A me piacciono. Quelle buone bisogna andarle a comprare lontano e poi papà dice che costano troppo, dice pure che con un paio di quelle con la marca ci compra le scarpe per tutti.  [...]

mercoledì 14 ottobre 2015

Cosa sarei senza di te




Mi prendo delle libertà. Lo ammetto. 
Mi diverto rigirandola, sezionandola. La accompagno e la compagnia la scelgo io.

Io comando. Io dispongo. Distolgo. E pure concedo.
Mi vengono i brividi al solo pensiero.

In prima persona aggiusto, valuto. Non vi dico in quali silenzi cerco le orchestrazioni esatte.
Mi avvento sulla prima, poi le cambio posizione.

L'amica deve stare dove decido io. Nessuna libertà.
Non concedo. Non divago.

Sulla quinta ho sempre parecchie perplessità.
Vuole confondermi. Meschina.

Peso e soppeso. Armonizzo i significati. Alterno le uscite.
Studio, è vero, ma solo per contar le sillabe.

Mi alzo, mi allontano. Lei crede di essersi liberata di me.
Torno e già si è messa in guardia.

La prendo, l'appoggio e la consolo.
Non la umilio, la consiglio.

Poi mi volto e torno indietro.
La guardo: è testarda.
L'ammiro: è sicura.

La chiamo: la parola.



Concetta D'Orazio

#scrivoindipendente



venerdì 9 ottobre 2015

Scrivo piano. Infilo le parole, una dietro all'altra. Respiro e poi smetto.
Il silenzio mi è complice ma pure mi sfrutta: ricatta la mia penna, esige lettere in buona fila, in cambio di assenza di distrazioni.
Meschina, gli obbedisco.

giovedì 8 ottobre 2015

Fotografando ottobre



Ho messo il turchese e non ci stava male.
Ho utilizzato un violaceo annebbiato dal vapore nella vigna. 
E mi tornava allegro.

Ho aggiunto un marrone poco cupo.
Per sicurezza, ne ho messo ancora, sfumando le venature troppo temerarie.
Il rosso mi pareva poco carico: l'ho rinforzato.

Il verde, invece, era della gradazione azzeccata: un poco tendente al colore dell'erba che va perdendo identità.
Quel tono era appropriato.
Ne occorreva un altro e ho pensato al tempo caduco e alle foglie appassite.

All'improvviso un già visto: l'immagine avrebbe dovuto brillare, come sotto ad un sole che saluta gli astanti, ormai diretto verso un'altra battigia.
Sono salita quindi verso quella cima novembrina. 
Lo so, è stato un azzardo avventurarmi alla volta di quel tempo che verrà. 

Ma andava fatto, almeno solo con il pensiero: ho liberato le idee fra tutta quella foschia grigia, fra l'umido che rinforza la campagna, invitandola al riposo guadagnato.
Ho rinunciato subito a quel fresco prematuro. Ogni cosa a suo tempo.

Sono tornata qui. Ho ripreso la mia immagine. Avrei dovuto comporla, azzeccarla. Valutarla. 
Avrei dovuto spostare i colori, rovistare fra quelle tonalità. 
Pizzicarle.

E invece mi sono fermata, capitolando alla pigrizia.
Ho preso solo la giusta angolazione. Quanto meno ho tentato di indovinarla.
Infine ho dato ordini precisi alla mia mano.

Sono rimasta così, in un rapimento intenso, un po' vanesio e vanitoso.
Fotografando ottobre.

Concetta D'Orazio

mercoledì 7 ottobre 2015

Polvere sul braciere


Un sole del dopo. Un caldo più tenue, fra un abbraccio umido e la bruma scura. 
Un tempo di fresco che tornerà di sicuro, quando le anime avranno placato le arsure della apparente e vanitosa vitalità estiva. 

Quel tempo lo sento. Mi pizzica un po', concedendosi il fresco e poi subito ritirandosi, quasi a farmi vedere che ci sarà. E ancora non c'è.

















Lo straccio. Mi serve uno straccio per togliere la polvere di tutti questi mesi, per tirare via la sabbia delle spiagge. 
E per cancellare il sale che le acque adriatiche hanno lasciato sulla pelle.

Riprendo, dunque, da dove la avevo abbandonata: la ricerca di un calore che mi ricopra le spalle e mi rassereni le preoccupazioni. Torno a inseguire quella pasta zuccherosa di famiglia, quell'aria sicura che solo un ceppo che arde può dare.

Riporto a me nuovi rametti di tranquillità: accenderanno la legna, la trasformeranno in carbone, facendola ardere, piano piano.
Con delicatezza e odore acre, la brace accoglierà le mie paure, rianimerà il coraggio.



Quel tepore accompagnerà le serate.
Sarà la prima cosa a cui penserò, quando calerò i miei piedi dal letto freddo dell'alba.
Quel calduccio mi aiuterà a far abbrustolire le castagne, il tardo pomeriggio.
E poi griglierà la cena.
Scalderà il latte per la buonanotte.

Lo so, sto sognando forse di un tempo che fu. Il tempo dei tizzoni e della sincerità. L'epoca di un Abruzzo antico e signore.

Lo so, sto scrivendo di un'atmosfera un po' persa. Di quando i carboni potevano anche rasserenare i tormenti.

Spolvero uno scaldino desueto, tentando di cancellare la foschia dai ricordi degli altri, che pure io vorrei avere.

Mi arrendo e riprendo lo straccio.
Pulisco tutto il mio braciere di sentimento, mi addormento.
Tornerò a respirare domani.

Concetta D'Orazio