lunedì 22 gennaio 2024

La casa museo di Ignazio Silone, a Pescina

 



Ignazio Silone, pseudonimo di Secondino Tranquilli, nacque nel 1900, nella Marsica, nel paese di Pescina dei Marsi (AQ). 

Figlio di un contadino, ex emigrante, e di una tessitrice, Silone fu il primo scrittore ad introdurre nella letteratura la figura dei cafoni: i cafoni si somigliano in tutti i paesi del mondo, diceva. Lo scrittore, dopo aver riconosciuto l'universalità del cafone, lascia trasparire una nuova connotazione della parola, attraverso la quale, mostrando la sofferenza e lo sfruttamento delle classi più povere della società, si dimostra un'idea di orgoglioso rispetto per la persona a cui è riferita.
Dopo la perdita prematura del padre, Silone dovette affrontare anche la perdita di quasi tutto il resto della famiglia che, ad eccezione del fratello Romolo, perì a causa del terremoto che colpì la Marsica nel 1915. Fu accolto in diversi istituti religiosi; venne quindi ammesso al pensionato di Don Orione, a Sanremo.
Sin dalla giovane età, Silone prese parte alla vita politica, partecipando attivamente alla fondazione del partito comunista, da cui poi si distaccò.


Dopo varie vicissitudini politiche, fu in esilio in Svizzera, dove si dedicò alla scrittura, redigendo tra le altre cose, Fontamara (1934), Vino e Pane (1936).

Tornato in Italia, nel 1944 pubblicò Fontamara, nel 1956 Il segreto di Luca, solo per ricordare alcune opere.
Nel 1968 pubblicò il dramma teatrale L'avventura di un povero cristiano, racconto della vita di papa Celestino V, il papa del gran rifiuto.
Silone morì a Ginevra nel 1978.



A Pescina è stata recentemente restaurata la casa natale di Ignazio Silone. Situata nel centro storico del paese essa è diventata Casa museo, raccogliendo al suo interno una ricca serie di testimonianze storiche e personali dello scrittore.

Sono stati ricostruiti alcuni ambienti con mobili e oggetti di inizio '900.
Sono presenti una biblioteca e un archivio.
Diversi sono i riconoscimenti, i premi, i quadri.
Vi sono  libri, documenti e varie fotografie donati dagli eredi dello scrittore.





È possibile visitare la casa museo, in un percorso guidato e assistiti da personale preposto.
Ed è un'esperienza che consiglio sicuramente.

Concetta D'Orazio






venerdì 5 gennaio 2024

Il latino sui Social


Articolo da me già pubblicato nell'aprile del 2021



Ormai tanti anni fa, la prima volta in cui digitai la parola "latino" nella barra di ricerca di un Social, lo  feci quasi per scherzo. Figuriamoci!

Quello che scoprii, inutile dirlo, mi piacque molto. Trovai comunità virtuali di studiosi e appassionati che componevano post in latino, condividevano link a pagine di cultura classica, di filologia, di storiaE fu così che vidi il latino non più rigido e senza tempo, men che meno inanimato, vivacizzarsi di nuova vita, quasi come alla fine di un letargo temporaneo.Le declinazioni iniziarono a ravvivarsi davanti ai miei occhi: la prima, stringeva l'occhio alla terza; vedevo il cum narrativo inseguire il de, che a sua volta non si staccava mai dall'ablativo. Ed esso correva. Correva così velocemente da rimanere sempre in testa. In assoluto. Un ablativo assoluto insomma.
Erano tutti affannati ma contenti.
E poi zompettavano, sperimentando un girotondo di quelli di tipo classico: utor, fruor e fungor si tenevano per mano, intonando strane melodie. Attorno ad essi. si succedevano, in ordine e con grazia, tutti i tipi di proposizione: c'era la consecutiva e c'era la finale. Vedevo poi l'ut con il congiuntivo. Ognuno provava passi nuovi ma tutti avevano un solo timore e rispettavano un solo comandante: la consecutio temporum.La lingua la conoscevo ma non riuscivo ad immedesimarla in quel contesto: un ambiente moderno, lontano, Social insomma.E chi l'avrebbe mai detto? Quelle parole, quei costrutti, lì, proprio lì. Quello che fu per me ancor più sorprendente è stato trovare persone che si esprimevano in lingua latina come se così parlassero correntemente tutti i giorni, a casa propria. Salutai e mi presentai. Da quel momento entrai anch'io nel foro latino più virtuale che avessi mai potuto immaginare.In un secondo tempo ho scoperto che tanti gruppi di  latinisti si trovano su Facebook. Ad essi sono iscritti persone che abitano in diverse parti del mondo. Incredibile. Loro si salutano, si nominano, si ringraziano. Sempre in latino.La scelta di scrivere in questa lingua li ricompensa con la possibilità che essa ha di esprimere le sfumature di significato, di uso e di  direzione delle parole.Avete presente quante sono le soluzioni, tanto per fare un esempio, per il sintagma verbale "dico"? Utilizziamo aio, ma anche dico. Sceglieremo di scrivere loquorferoinquam, narro  e altro ancora, a seconda di quanto viene riferito negli altri segmenti della frase.Il latino originario si presta ad indicare le azioni, i pensieri e le emozioni di ognuno in maniera variegata. Certo, dobbiamo anche pensare che, tuttavia, questa lingua ha pure i suoi annetti. Se li porta bene, forse anche troppo, ma qualche volta ha necessità di essere impinguata di nuovi vocaboli, laddove gli originali non siano adatti a delimitare e determinare con precisione situazioni e prodotti del presente. Gli amici latinisti però non si perdono d'animo e cercano di aggirare l'ostacolo, ricorrendo a perifrasi appropriate o a vocaboli di nuovo conio. In situazioni estreme adattano anche le parole primitive a circostanze moderne.Capita che le belle foto che qualche amico ha pubblicato si trasformino in pulchrae (o pulcherrimae all'occasione) imagines. Solo per fare un esempio.Mi rintrona nella testa quella brutta figurazione che delle lingue classiche ci hanno dato, definendole "lingue morte". Mi chiedo: come si fa a definire esanime un idioma che è invece così pieno di spirito? Che accomuna? Che favorisce?In rete il latino sta recuperando tutta la sua vivacità.E che questo sia chiaro, da cum dividere, insomma!
Concetta D'Orazio

lunedì 1 gennaio 2024

Dal latino al volgare. La lingua evolve.



In un precedente articolo, dicevo che ogni lingua subisce nel tempo delle trasformazioni ma che queste avvengono in maniera graduale, naturaliter.

L'evoluzione si compie con una certa spontaneità, tanto che i soggetti interessati da tale cambiamento non sono esattamente consci di questa transizione oppure avvertono che, nel loro modo di esprimersi, iniziano a comparire, e soprattutto ad essere accettate, alcune novità, ma la loro consapevolezza a tal riguardo rimane confinata nel limbo delle situazioni a cui ci si deve adattare, senza fare tante domande. 

Alcune persone accettano di buon grado le innovazioni in campo linguistico, altre si chiedono la motivazione che ha portato ad approvare nuove parole, a crearne, a cambiare la sfumatura semantica di talune espressioni ma, infine, anche loro approvano il cambiamento e lo fanno proprio. Vi sono quindi i linguisti, gli esperti del linguaggio che di certo di fronte ai cambiamenti si impegnano a studiare le motivazioni che hanno portato a fare certe scelte, ne rinvengono le cause, ne valutano la necessità, propongono eventualmente altre possibilità.

Dunque l'evoluzione linguistica non è cosa che avviene dall'oggi al domani, a meno che non si tratti di una variazione linguistica pianificata o pianificazione linguistica: questa si ha quando, per determinati motivi o per specifiche esigenze, si decide di aggiungere, cancellare. modificare termini o espressioni in una determinata lingua. Questo tipo di influenza programmata può essere dettata da fattori di necessità, quando, ad esempio, bisogna nominare un oggetto, un comportamento, un'emozione, un'abitudine che prima non esistevano. Si corre allora a cercare la parola di cui si ha bisogno, magari prendendola da altre lingue oppure creandola ex novo. Si producono così prestiti e neologismi (νέος-λόγος, nuova parola).
La pianificazione linguistica, a volte, risponde anche ad interventi di tipo politico o sociale: si pensi a quando un determinato regime o una forza politica dominante impone specifiche regole sulla maniera di esprimersi.

In questo articolo voglio definire meglio un argomento che, come detto, avevo già accennato: come si evoluta la lingua italiana, nel particolare come dal latino si è arrivati alla nostra lingua romanza.

Nel II secolo d. C., il latino aveva iniziato a diversificarsi rispetto alla sua unità linguistica originaria, proprio quando l'impero romano raggiungeva il suo massimo splendore, con la conquista di un territorio sempre più vasto. Infatti quando una lingua interessa una zona estesa, essa diventa più soggetta a modifiche, sia perché incontra le differenziazioni linguistiche già in seno a quell'esteso territorio, sia perché inizia ad essere utilizzata da un numero di persone così vasto e così diverso dal punto di vista sociale ed economico, che inevitabilmente adatta la parlata alle proprie esigenze, al proprio contesto d'uso, alle proprie tradizioni.
Mentre il latino scritto rimaneva la lingua uguale a sé stessa ed utilizzata per finalità ufficiali, politiche o di cultura, il latino parlato andava perdendo la sua purezza, man mano che si avvicinava e si mescolava alle parlate autoctone, proprio nel periodo di massima espansione imperiale. Il latino cioè subiva contaminazioni, a seconda delle aree geografiche in cui fu introdotto. 
Certo, pur il latino scritto presentava a volte degli elementi ripresi dal parlato e dunque delle alterazioni, tuttavia il fenomeno rimaneva sempre abbastanza controllato quanto consapevole. 
In seguito all'incontro con le lingue locali, il latino parlato iniziò a diventare latino volgare, soggetto a sovrapposizioni e incroci con le parlate primitive, i volgari appunto, delle diverse aree linguistiche.
Con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente , il latino parlato si era mescolato con gli idiomi delle diverse zone: nacquero le lingue romanze. Questo processo durò alcuni secoli.

Il volgare, vale a dire la lingua parlata dal volgo, iniziò poi ad essere usato in alcuni documenti di uso pratico, quali ad esempio gli atti notarili o giuramenti (Placito capuano, X secolo). 
Interessante, ancor prima, nel IX, l'Indovinello veronese, formato da alcune righe messe a mo' di nota su una pergamena: vi sono mescolate parole in latino e parole in volgare. La nota, inoltre, è posta vicino ad un'altra tutta in latino corretto.

se pareba boves alba pratalia araba & albo versorio teneba & negro semen seminaba


Teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati, e un bianco aratro teneva e un nero seme seminava.

L'indovinello, detto veronese perché rinvenuto a Verona, qui conservato, ma proveniente dalla Spagna nell'VIII secolo, allude probabilmente al lavoro di un amanuense,  il quale, come un agricoltore, mandava avanti le dita (i buoi), teneva in mano la penna (aratro), con la quale incideva (arava) bianchi fogli (prati), seminando inchiostro (nero seme). Esso è considerato il più antico testo scritto in lingua romanza, è una dimostrazione di come latino e volgare erano usati in contemporanea anche in alcuni testi scritti.

Solo nel Duecento il volgare iniziò ad essere usato come lingua letteraria, con la Scuola siciliana.


Concetta D'Orazio




giovedì 28 dicembre 2023

I codici manoscritti, la stampa, la diffusione dei testi e l'editoria.





Editoria, etimologia

Il verbo latino ēdo, ēdis, edidi, editum, ēdĕrha vari significati che vanno dal mandare fuori, in senso generico, al produrre, al partorire, al divulgare, diffondere.


Con il termine editoria s'intende il complesso di tutte quelle attività che servono alla pubblicazione di contenuti, a stampa e digitali.
La diffusione può avvenire in varie forme, per vari canali, su diversi supporti, come ad esempio la carta o la pubblicazione via Web.
Un tempo l'idea di pubblicazione era pressoché riferita al campo dei libri, oggi essa include numerose modalità, di cui la produzione di testi cartacei rappresenta solo una parte: si pubblicano libri di carta, così come libri digitali, e-book, testi destinati alla comunicazione digitale.

Storia

Cicerone riferendosi agli scriptores affermava nisi qui forte nondum ediderunt (Cic, Leg. 1.7), se non per caso coloro che hanno già pubblicato.

Certo, ai tempi di Cicerone, pubblicare e dunque trasmettere un proprio scritto aveva un significato diverso da quello che conosciamo noi. Il testo doveva essere ricopiato tante volte quanti erano i libri, i volumina, che si desiderava ottenere. Le difficoltà che questo tipo di edizione incontrava erano molteplici, dal reperimento dei materiali da utilizzare come supporto, papiro o pergamena, a quello delle persone che fisicamente erano preposte a copiare. Non esistevano editori veri e propri, la pubblicazione, cioè la condivisione degli scritti, era attività favorita dall’entusiasmo operoso di alcuni animatori culturali, come nel caso di Attico, cui Cicerone indirizzò le sue epistulae (Epistulae ad Atticum). Possiamo ritenere Tito Pomponio, detto Attico per via della sua passione per la cultura greca e la permanenza ad Atene, il primo editore, dato che, grazie ad una vasta schiera di copisti e lettori al suo servizio, pubblicò numerosi libri latini e greci e le opere di Cicerone.

Nel Medioevo, l'attività di redazione delle copie dei manoscritti (manu scriptus, scritto a mano), testi antichi e classici era affidata al lavoro degli amanuensi, monaci a cui era commissionato la preziosa mansione di trasmissione delle opere dei classici. Essi si impegnavano alacremente nei locali adibiti alla copiatura, gli scriptoria. Il lavoro svolto nello scriptorium comprendeva anche tutta la cura necessaria alla conservazione del manoscritto, il codex. I libri così ottenuti dalla copiatura venivano inizialmente custoditi in contenitori atti all'uso; più tardi nacquero le biblioteche. 

I codici manoscritti venivavo ricopiati sulla pergamena, fatta di pelle di capra o di pecora, materiale che aveva sostituito il papiro, più fragile e più difficile da reperire.

Gli scriptoria medievali ebbero una fondamentale importanza per la conservazione delle grandi opere del passato, dell'antichità classica.

In questa fase di conservazione e trasmissione dei testi giocarono un ruolo molto importante le abbazie (Montecassino, Bobbio, Casamari ...).


Abbazia di Casamari




In epoca medievale, inoltre, esistevano anche alcune botteghe artigiane in cui si  trascrivevano manoscritti. L'artigiano era dunque colui che produceva il libro, ricopiandolo o facendolo ricopiare. Una figura di editore sui generis, possiamo dire, diversa sicuramente da quella dell'editore moderno, in quanto egli poteva solo riprodurre i libri servendosi di amanuensi che replicavano il testo in un determinato numero di copie, che venivano quindi distribuite e vendute  L'editore era anche libraio, anzi soprattutto libraio, e la sua sfera d'azione era molto ridotta, se paragonata a quella dei tempi moderni.

La maniera di pubblicare le opere scritte ebbe una decisiva evoluzione quando, a metà del millequattrocento, Johannes Gutemberg sperimentò la stampa a caratteri mobili: caratteri metallici venivano accostati su di un telaio e quindi inchiostrati, per essere poi impressi.
In realtà la stampa, seppur con diversa modalità e con matrici di legno, era già conosciuta in Cina.
Grazie alla tecnica con i caratteri mobili, nella nostra civiltà, veniva finalmene permessa la pubblicazione in serie dei libri.
I primi libri, stampati tra la metà del 1400 e il 1500, si chiamarono incunaboli, dal latino in cuna, nella culla, vale a dire libri in fasce, cosiddetti anche perché i caratteri mobili venivano tenuti fermi con delle fasce.
Le stampe prodotte dopo il 1500 furono dette cinquecentine.
In seguito alla grande scoperta della stampa a caratteri mobili, tutta la maniera di far conoscere le opere del passato nonché quelle contemporanee incontrò un naturale progresso.
Nacquero e si svilupparono le botteghe tipografiche, vale a dire piccole e grandi aziende che si occupavano di produrre libri e fogli stampati attraverso la nuova tecnica. Nel XV secolo, nel particolare, Venezia fu territorio fecondo per questo tipo di imprenditoria.
Nei primi anni del 1500, maestro dell'arte della stampa e della tipografia fu l'umanista Aldo Manuzio, considerato uno dei più grandi stampatori-editori del Rinascimento; a Venezia fondò la sua famosa tipografia, dove nacquero le Edizioni aldine. A Manuzio, oltre alla sistemazione della punteggiatura, alla numerazione per pagina, recto e verso, si deve il cosidetto aldino, il carattere tipografico corsivo
Il carattere italic è chiamato così proprio perché questa forma fu ideata per la prima volta in Italia, appunto da Aldo Manuzio. 
Grazie al corsivo, Manuzio potè stampare edizioni di piccole dimensioni, tascabili, in formato in ottavo. Con queste innovazioni, il libro, che prima era stato accessibile a pochi, diventò disponibile per un pubblico molto più vasto.

Il libro prodotto in serie acquistò, quindi, il carattere di una merce. Come tale, esso doveva essere perfetto o almeno cercare di non contenere un gran numero di errori. Nacquero una serie di passaggi, o di attività che dir si voglia, precedenti e successivi alla stampa, finalizzati all'ottenimento di una buona merce da distribuire. 
Nelle stamperie e tipografie il lavoro necessario alla produzione di un libro iniziò a diversificarsi; ogni operazione, dalla messa a punto del testo, alla correzione delle bozze, alla cura editoriale, alla pubblicazione e alla distribuzione, favorì, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, la nascita delle Case editrici, come noi le intendiamo.

A questo punto è necessario fare una doverosa precisazione: non è possibile parlare di editoria vera e propria fino a quando in Italia non si arrivò a concepire l'idea di una lingua unitaria. Ai tempi di Manuzio, le opere scritte, se non in latino e greco antico, erano in volgare.
I volgari erano diversi, a seconda delle diverse aree della nostra Penisola e così differenziati erano gli scritti dell'epoca. 
La varietà di scriptae, cioè di lingue scritte, nel Quattrocento si andò via via evolvendo verso una forma comune che sul volgare toscano appoggiava le proprie basi, dato il prestigio da esso acquistato nel corso del Trecento.
L'attività di Manuzio si incontrò con quella di Pietro Bembo, che curò alcune opere delle Edizioni Aldine e che fu illustre attivista nella cosidetta Questione della lingua.

Nel Cinquecento si diffusero le prime grammatiche e i vocabolari (lessici).
Nacquero poi i primi periodici e si allargò il pubblico a cui le stampe erano destinate, soprattutto in seguito all'aumento del numero delle persone alfabetizzate; si rinnovarono biblioteche e accademie letterarie.

Solo nell'Ottocento, tuttavia, si può parlare di editoria nel senso moderno del termine, quando il pubblico si amplia, le collane si diversificano e la figura dell'editore assume un ruolo più definito, dovendosi egli occupare di curare l'intero progetto editoriale che ruota attorno alla produzione del libro, fatto di autori, redattori, revisori, grafici.

Ai giorni nostri l'attività editoriale ha dovuto adattarsi alle nuove forme di comunicazione aggiungendo al suo interno una vasta specializzazione ad essa riservata. 
Il digitale si affianca alla stampa tradizionale. Le opere raggiungono i fruitori attraverso una serie di canali diversificati e complessi che l'editore non può non curare.



Concetta D'Orazio


venerdì 3 novembre 2023

Mente, fisico e natura

 



In simbiosi con la mia mente
è il mio fisico.
E fisico e mente, poi, procedono in empatia con i capricci della natura.
Come quel suono sbarrato, a metà fra un singulto e uno sbadiglio sbagliato, è portato dal vento, così un rumore molesto colpisce la mia riservatezza.
Un soffio molto spinto di folata, di raffica e sbuffo: a questo risponde il mio corpo, innervosito dal rumore, fa sentire le sue giunture scricchiolanti.
La testa si piega di qua e di là, quasi ad assecondare l'aria che rimbomba e squassa e raglia con una voce arruginita.
Vorrei che tutto questo finisse, che la terra si potesse finalmente quietare, godendo del riposo stagionale che le è concesso.
Che il suono di disturbo di questa corrente così aggressiva lasci il posto al sussuro, lieve e frizzante, dell'aria novembrina, lo desidero.
E che io possa finalmente respirare un pezzo di tranquillità.
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venerdì 27 ottobre 2023

Scrivere per campare

 



Scrivere per campare


Chi è lo scrittore fantasma?
Un ghostwriter è la persona che, per così dire, ti impresta la penna.
Per essere precisi: è lo scrittore che scrive al tuo posto, poi ti vende la carta (scritta), dietro compenso deciso in precedenza.
Non è corretto quindi dire che lo scrittore fantasma ti presta la penna; egli ti permette di far credere tuo ciò che tuo, in effetti, non è.

E cosa può scrivere un ghostwriter?

Non ci sono limiti: articoli, romanzi, saggi, recensioni, addirittura tesi di laurea, discorsi politici, interventi destinati alla televisione. Insomma il ghost può scrivere tutto. Di certo sarà necessario che egli s'informi prima su argomenti che non padroneggia, su situazioni che non conosce.

Si potrebbe pensare che lo scrittore fantasma sia un autore di seconda scelta, perché scrive per campare e si adatta a tutto.

Si potrebbe credere che il ghostwriter sia un romanziere che non ce l'ha fatta.
È vero semmai il contrario: questo professionista deve accomodare la sua penna alle esigenze del cliente. Deve scrivere con il suo (del cliente) animo e con il suo (del cliente) cervello.
Deve, infine, convincere il cliente della sua (del professionista) bravura.
Pensate che sia facile tutto ciò?
Il ghostwriter dunque è maestro nell'adattare, nell'adeguarsi, nell'aggiustarsi all'occasione.
Più che maestro è un mastro. Un artigiano della parola.

Occorre poi considerare il lato affettivo della questione: sapete com'è difficile partorire un brano e darlo subito dopo in adozione?

È un po' come sentire quel tuo pezzo (nel senso lato ma anche preciso del termine), che rimane sempre in fondo al tuo cuore, anche se magari sai bene che, in fondo, è solo la descrizione meticolosa delle istruzioni da seguire, per montare una motozappa a benzina!

Concetta D'ORazio


#ghostwriter

Il vento

Il vento è come la rabbia,

fa avanti e indietro, si accanisce sul momento, poi si ritira.
Potrebbe trasformarsi in carezza, addolcendo le sue maniere,
ma questo il vento non lo sa.
Vuole farsi sentire, proprio come la rabbia, che non accetta di passare inosservata.
Essa si sente una regina.
Non lascia andare avanti nessuna collega, perché lei è sovrana e non ha compagne di lavoro.
Gentilezza, eleganza, educazione.
La rabbia sa che potrebbero oscurarla, perciò le tira da parte.
Essa primeggia.
Così il vento si impone sulla tranquillità, sulla brezza, sulla luce delle ore.
Le sferzate di rumore si avventano sulla quiete della giornata, rendendola insopportabile.
Finirà quel fiato a raffica, con il suo anelito confuso, aggrovigliato nella distruzione.
Le folate di ira si scanseranno, lasciando nuovi spazi a novella pace.

giovedì 12 ottobre 2023

Consapevolezze

 Consapevolezze


Potrei rubare i momenti,
ma gli attimi non si prendono, si sorprendono.
Potrei strofinare il tempo,
ma l'età non si stropiccia, si accompagna.
Potrei respirare il nuovo,
se solo la novità mi lusingasse ancora.
Eccomi ad accettare finalmente le mie insicurezze,
a farne sfoggio,
come se fossero la mia bandiera.
Esibisco le incertezze, mostro i miei dolori.
Non li nascondo, quasi me ne vanto.
Ora posso, adesso ho l'età.

giovedì 25 agosto 2022

L'incipit

 




Importanza dell'incipit


Incipio in latino significa intraprendo, comincio; nell'uso filologico con la parola incipit, terza persona singolare del verbo incipio appunto, s'intende l'inizio di un testo, in riferimento alla prima parola o alle prime parole.

Volendo estendere il significato del termine, in relazione al campo editoriale, si può affermare che l'incipit non è solo limitato alla parola o alla frase iniziali di un testo, una pubblicazione, ma esso abbraccia tutto un intero brano o paragrafo.

Gli autori lo sanno, l'incipit è fondamentale come un asso nella manica.

Eh, va bene, ma perché dare tanta importanza all'inizio? 

Esso è la nostra presentazione! 

Prima di acquistare una copia cartacea di un libro, qual è la cosa che facciamo, oltre a dare uno sguardo alla copertina e alla quarta di copertina? Senza dubbio è quella di leggere l'overture del romanzo.

Allo stesso modo, prima di scaricare una copia digitale, clicchiamo sul pulsante "leggi l'estratto" e cerchiamo di capire se quello è un e-book che fa per noi. Per questi motivi l'inizio di un romanzo non deve mai deludere le aspettative del lettore: egli lo abbandonerebbe prima ancora di averlo acquistato.

Con la lettura del prologo, il lettore inizia ad avvicinarsi all'autore, ne palpa l'essenza, ne immagina i contenuti, ne studia la forma. Chi legge è già in grado di capire se quella storia potrà appassionarlo, se la forma narrativa si addice alle aspettative che nutre in quel momento.

L'incipit dunque dev'essere accattivante, seducente; dev'essere inoltre preciso nella resa sintattica, non che il resto non debba esserlo, s'intende, ma, piazzare un refuso, o peggio ancora un errore di ortografia, proprio all'inizio, non è che faccia fare una bella figura all'intero libro.

Non ha importanza cosa scriverete nel prologo: una descrizione? Un dialogo? Una riflessione? Con qualunque cosa abbiate deciso di iniziare, voi dovete riporre in essa tutta la vostra attenzione! 

Buon lavoro.


Concetta D'Orazio


Sì, perché le prime impressioni sono quelle che contano. Lo dicono sempre quelle persone che insegnano a scrivere.  
Le stesse che consigliano di non dilungarti, di non divagare, di non associare, di non aggettivare. Di non perderti d'avverbio. 
Di tirare dritto e mantenere il passo.
Di contare le battute e di misurare le vocali. (rif.articolo)


mercoledì 24 agosto 2022

Editing e correzione bozze: differenze



CORREZIONE DI BOZZE ED EDITING

Nell'ambito dei miei ragionamenti sulla questione relativa alla pubblicazione di un testo, rivolta soprattutto agli autori cosiddetti indipendenti, vale a dire a coloro che non si avvalgono del patrocinio di una casa editrice, volevo chiarire una questione importante.
Una volta terminato, il manoscritto deve seguire numerosi passaggi prima di essere pronto e perfetto. Tra gli amici autori, cioè tra coloro con cui scambiamo vicendevolmente favori in fatto di letture e revisioni, sono diversi coloro che mi scrivono per chiedere indistintamente un aiuto per la correzione delle bozze e per l'editing, dimenticando spesso che fra queste due attività editoriali c'è una notevole diversificazione. 

Qual è la differenza?
Dunque, la mano del correttore di bozze individua e corregge:

- refusi;
- errori di tipo sintattico, vale a dire gli sbagli inerenti alla struttura della frase;
- resa della punteggiatura;
- uso impreciso dei caratteri, delle spaziature, secondo le direttive che ogni autore indipendente ha scelto di seguire oppure secondo le indicazioni della casa editrice;
- alcuni aspetti dell'impaginazione.

Cosa fa un editor?

L'editor è una figura più complessa che si affianca di pari passo all'opera dell'autore, rendendone chiari gli intenti e aiutandolo nella resa della narrazione.
Questa figura è indispensabile alla buona riuscita del libro: autore ed editor devono procedere in perfetta simbiosi empatica, nel corso della scrittura. 
L'editor si preoccupa di analizzare ogni brano di un'intera opera e vedere se essa è:
- congruente;
- lineare;
In fase di editing si analizzano ed eventualmente si correggono:
- le caratterizzazioni dei personaggi;
- la coerenza delle azioni;
- la congruenza fra epoca storica di ambientazione, usi e costumi, linguaggio utilizzato.
Ultima ma non meno importante fase della revisione è quella dell'eliminazione di tutti i brani inutili alla narrazione.


Concetta D'Orazio

domenica 20 marzo 2022

Abruzzese, διάλεκτος, lingua




Il greco, il latino e l'abruzzese.


L'abruzzese è davvero un dialetto? 
Possiamo accostarlo ad un idioma completo ed indipendente?

Per prima cosa diamo corretta interpretazione dei termini. Le lingue classiche, come sempre, vengono in nostro aiuto grazie alla comune origine indoeuropea.

In greco antico, il termine διάλεκτος indica un modo di parlare definito dall'utilizzo in una determinata zona. Una lingua precisa usata in un preciso ambiente, circoscritto.
Il dialetto è un modo di esprimersi "usuale", comprensibile da tutti coloro che abitano in quel territorio.
Esiste un dialectus anche in lingua latina, con lo stesso significato.

Altra cosa è la κοινὴ, espressione al femminile dell'aggettivo κοινός, il cui significato è quello di "comune". 
La koiné è la modalità di comunicazione, vale a dire la lingua, utilizzata da un vasto numero di persone, insomma l'idioma considerato universale. Generalmente tale idioma si è formato da un dialetto "principale", cioè più diffuso e/o più conosciuto che, per così dire, prende il sopravvento rispetto agli altri.

L'aggettivo κοινὴ lo accostiamo a γλῶσσα, la lingua intesa anche come strumento per comunicare. Dunque molto più vicina, nel senso, alla lingua,ae  del nostro latino che, tra le diverse valenze di significato ha proprio quella che si riferisce alla parte anatomica.

Γλῶσσα κοινὴ, quindi, è lo strumento di comunicazione utilizzato da un nutrito gruppo di persone, generalmente una popolazione stanziata su un determinato territorio. Esse, per comprendere e farsi comprendere, adoperano un registro comune che risponde a dettami e norme precise, in fatto di grammatica, lessico, pronuncia, utilizzo dei termini. 
Ciò che caratterizza una lingua, dunque, è proprio il fatto che coloro che la utilizzano accettano di rispettare determinate regole.

Possiamo dunque argomentare una sostanziale differenza fra γλῶσσα κοινὴ, quella che in latino diventa communis lingua, e che in italiano ci limitiamo a definire lingua, e il dialetto. 
Quest'ultimo appare limitato ad una zona circoscritta, in termini di spazio geografico, utilizzato da un nucleo di persone ivi stanziate. 
È importante sottolineare che il dialetto non si distacca dalla lingua ufficiale, ma ne è una "propaggine" e come tale differisce solo in alcuni minimi aspetti, quali la pronuncia, la cadenza che produce la cosiddetta inflessione o accento, al limite l'utilizzo di qualche parola caratteristica.

Ma procediamo ancora nell'argomentazione di prima.
Analizzando la parola διάλεκτος con maggiore precisione, vediamo che essa deriva dall'unione di διά e di λέγομαι

La preposizione διά ha già in sé insito un significato di movimento, dunque contiene un'immagine di un luogo non predefinito ma in costante divenire. Il movimento "attraverso per" ci fa ragionare sulla natura di quanto intendiamo con il nostro dialetto, in lingua italiana.

Dunque διά λέγομαι equivale a "dico attraverso": il verbo indica la parlata in cambiamento, o meglio il cambiamento della parlata, attraverso lo spostamento fisico da un luogo ad un altro.
Possiamo affermare che il dialetto è una variazione territoriale della lingua comune ed ufficiale, che non differisce da essa in maniera considerevole, con variazioni grammaticali, ad esempio con differente utilizzo delle parole, con l'utilizzo o meno di determinati modi o tempi verbali.

Arriviamo ora a ciò che ha mosso all'origine questo mio studio. 
Quanto l'abruzzese può definirsi lingua e quanto invece dialetto?

Sulla differenza, in italiano, fra lingua e dialetto molto è stato detto e scritto. E ancora gli studi sono vivaci.

Ripeto che una lingua per essere riconosciuta come tale, da tante persone, deve avere insito in sé un meccanismo di comunicazione che si basa su norme determinate che la fanno diversificare da altri idiomi.
Tali norme riguardano la sfera sintattico-grammaticale, quella semantica, quella della pronuncia e quella della esperienza nel tempo, che porta all'evolversi di diversi termini o modi di dire.

L'abruzzese ha una grammatica che lo rende differente dall'italiano, risponde a regole fonetiche specifiche e vanta una lunga storia che ha visto questa parlata mutare nel tempo.

Persino la costruzione delle varie proposizioni spesso differisce dall'italiano.
Faccio qui solo qualche esempio.
La proposizione interrogativa, in abruzzese è spesso introdotta dal "che".

Che me le se preparate chela  carte? - Me l'hai preparata quella carta?

Il condizionale è pressoché inesistente.
La proposizione ipotetica, nelle sue valenze della possibilità e dell'irrealtà, infatti, trova accostati nella protasi e nell'apodosi due congiuntivi, in vece di un congiuntivo ed un condizionale.

Le facesse, se putesse. - Lo farei, se potessi.

Non esiste il futuro

Nell'abruzzese ci sono alcuni suoni che non troviamo in lingua italiana: tra questi, quello più comune, è la pronuncia sct del binomio consonantico st.

La strade = (pronuncia) la sctrade.

Altra differenza con la lingua italiana è la presenza della cosiddetta vocale finale (o anche intermedia) indistinta. La vocale c'è ma non si sente. (Ricordo che, per mia comodità l'ho indicata con un colore diverso da quello del resto della parola, evitando di ricorrere al simbolo ufficiale).

La cas= (pronuncia) la cas.

Non mi dilungo troppo con gli esempi. Concludo dicendo che l'abruzzese non può essere considerato come dialetto, vale a dire come una variante territoriale della lingua principale, cioè dell'italiano. 
Possiamo dunque classificarlo come lingua.
Naturalmente si continuerà a definirlo dialetto, sia per comodità, e sia perché, per assurgere al ruolo (titolo?) di lingua, è necessario anche il riconoscimento ufficiale da parte di comunità scientifiche.

Azzarderei affermare che proprio all'interno della lingua abruzzese si sono diversificate varie parlate, differenti soprattutto nel suono, ma non solo. 

Queste numerose parlate che esauriscono la loro valenza nell'ambito di realtà territoriali circoscritte potrebbero quasi essere assimilate a dialetti: dialetti derivanti dalla lingua abruzzese.

Concetta D'Orazio