Nero di memoria



Come nasce Nero di memoria

Dovevo scrivere. Lo sentivo. Dovevo scrivere per non dimenticare. E per non concedere oblio alle vicende di chi non c'era più.
Non ricordo quando fu la prima volta che iniziai a prender appunti, buttando giù, sui fogli di un blocchetto, tutte le notizie che portavo dentro da sempre, per averle sentite raccontare da quando ero bambina. 

La casa e la famiglia, il luogo dove si vive e la gente con cui si trascorre la propria esistenza, da quando, da piccoli, si inizia a prendere coscienza del mondo, finiscono inevitabilmente per diventare un pezzo della tua carne. Della famiglia di origine, genitori, fratelli e nonni, si ereditano persino i battiti cardiaci, arrivando, quando ormai si è grandi, ad avere pensieri e ricordi che si fondono con quelli di tutti i componenti. E si confondono.

Il ricordo che ho della parola "guerra" è quello che custodisco da mio nonno, classe 1912.
«Io ho fatto la guerra», lo ripeteva spesso, come un intercalare malinconico, quando voleva i nostri occhi compassionevoli. E noi li fermavamo i nostri occhi, su quel viso che era più triste delle parole che diceva.

Era triste il suo viso, sì, quando nonno fermava i suoi pensieri su quel ricordo maledetto.
«Mangiavo le scorce (bucce) delle patate, quando ero prigioniero. Perché io la guerra le so fatte (l'ho fatta)!», ripeteva a volte. E il suo sguardo diventava quasi di sfida verso noi nipoti bambini che ci permettevamo di rifiutare il cibo. Non volevamo mangiare? Che ci lasciassero a digiuno per un po' le nostre mamme. Una mezza giornata, bastava così poco tempo, diceva nonno, «A da vede' dopo coma se le magne! (devi vedere dopo come mangiano)», consigliava con furbizia alle nostre genitrici apprensive, aggiungendo «je le sacce come è la fame (la conosco la fame) perché je so fatte la guerra (perché ho fatto la guerra)!». E noi allora, pur di scansare ancora quel piatto di minestrina che non ci piaceva, pur di avere un ulteriore pretesto per tener lontano il momento della resa alla scodella di pastina, gli chiedevamo di raccontarci, per l'ennesima volta di come faceva a trovare le bucce, quando era prigioniero. 
Non capivamo quale significato avesse quel suo dirci "prigioniero"; quella era una parola ambigua, informe, lontana. Nonno la faceva sembrare misteriosa, la scandiva, respirandoci sopra. In noi bambini, in realtà,  non suscitava particolare interesse: conoscevamo quel termine per averlo sentito con una ricorrenza quasi quotidiana; non sapevamo cosa significasse essere "prigioniero" ma intuivamo che non doveva essere una cosa poi così entusiasmante. Facevamo bleah al pensiero di quelle bucce zozze che nonno diceva di aver mangiato e che, ci dovevamo fidare, erano buonissime. Quando c'era la fame, tutto era buono. 
E mangiavamo quella pastina, anche forse per la paura, che si mettesse davvero in pratica quel consiglio. Non lo dicevamo, ma io lo so, in fondo fondo, avevamo paura anche noi di essere costretti un giorno a rubare le bucce e a mangiarle di nascosto. Nonno era riuscito nell'intento.

E così a volte lui ci sembrava un eroe, quando lo pensavamo soldato di prima. Altre volte invece leggevamo il suo fardello di sofferenze passate. E allora nonno non pareva un eroe. Allora era semplicemente un uomo che aveva sofferto troppo. E che era stanco di soffrire.

Come nasce Nero di memoria? 

Le storie che avevo fatte mie, nel corso della esistenza, in quella parte della esistenza che è di prima vita, sono state il primo anello di collegamento al mio scritto. Queste storie però le custodisco solo grazie al prodigio del ricordo, prodigio che, ahimè, con il trascorrere degli anni, è destinato a perdere di intensità e ad esaurirsi.
Non ho mai pensato, quando avevo l'opportunità di poter segnare con certezza nomi, date, movimenti di affidare ad un taccuino almeno i fatti essenziali, in maniera da non perderli con il tempo. Quando poi mi sono accorta che avrei dovuto farlo, non ho più potuto, essendo venuta a mancare la voce che poteva aiutarmi nella ricostruzione.
Per questo motivo, non ho molte notizie certe di quello che è accaduto al capostipite della mia famiglia, nel corso degli anni della Seconda Guerra Mondiale. Ho ricostruito le sue vicende, tentando di collegare le poche notizie che ricordo, molto frammentarie ed imprecise. La fantasia, per fortuna, è venuta in soccorso delle mie certezze mancanti.
Nero di memoria, perciò, non è la rievocazione della storia dei miei nonni: l'ispirazione ai loro racconti è stata poi condotta su una narrazione che prosegue con molta immaginazione. 
Il racconto ha la presunzione di far rivivere, negli episodi che lo caratterizzano, quegli anni tremendi, dopo l'armistizio di Cassibile, nel settembre del 1943.
La storia è quella di Antonio e Filomena: l'uno impegnato in prima linea e poi internato come prigioniero, l'altra a casa, a tentare di mantenere in vita, sfamando i bambini, quel nucleo famigliare che hanno voluto costruire insieme, in un tempo vicino eppur reso lontano dalle tragedie della guerra.
Amore. Passione. Sofferenza. Tragedia. Questo è Nero di memoria.

****

L'armistizio di Cassibile, 8 settembre 1943, segnò la fine delle ostilità fra l'Italia e le forze alleate.  Cosa accadde ai soldati italiani disseminati sui vari fronti? Ad essi fu chiesto di collaborare e  di continuare la guerra a fianco dei tedeschi. Drammatica fu la sorte di coloro che si opposero, dicendo "no!". Prigionia. Sofferenza. Morte. "Nero di memoria" è la storia di uno di quei soldati, Antonio, costretto a vivere da prigioniero, e di una delle tante donne italiane, Filomena. 
Antonio ora è un militare internato, un IMI. Nel campo di prigionia sopravvivere è difficile.
Antonio pensa alla sua donna, ai suoi figli. Ai due figli.
Filomena immagina il suo uomo, lo vuole vivo. 
Filomena custodisce i figli. I tre figli.
"Nero di memoria", è finalmente online.


***

Un anno di "Nero di memoria"

La storia (parte uno) - La fame e le patate

Ad ottobre 2013 terminavo e mettevo online il mio Nero di memoria, un libro a cui sono affezionata, dal momento che esso rappresenta un impegno che ho voluto prendere mea sponte sì, ma che ho portato avanti con la cura che sentivo essermi richiesta in qualche parte del mio "di dentro".

Da chi mi fosse reclamata questa preoccupazione, a dire la verità, non lo so bene nemmeno io.
Il bisogno di appuntare nasceva dentro, come per rispondere ad un lontano richiamo. 
Ho coltivato così quell'illusione che potessi essere stata "comandata" dallo spirito del sangue che mi veniva dalla discendenza diretta da un uomo, che aveva portato dentro, dietro e sopra le spalle, e ancora sul collo, nel pensiero, vicissitudini di crudeltà inaudite.

Li avevo sentiti narrare sin da bambina e ammetto che spesse volte, soprattutto per l'ingenuità e la spensieratezza dell'età, non avevo dato importanza a quei racconti che mi parevano così estremi da poter essere davvero accaduti.

Eppure quelle storie ripetevano scene tratte da un'esistenza che ho avuto davanti ai miei occhi non molto a lungo. 
Quelli che nascevano come resoconti, da parte di chi aveva provato sulla propria pelle tutto il dolore della guerra, spesso parevano anche a me elementi così crudi che sarebbe stato meglio dimenticare, insieme a chi ne aveva tanto bisogno. 
Appartiene alla natura umana l'istinto di annullare i tormenti. 
Quando qualcosa fa male, segna e deturpa l'anima deve essere cancellato, annullato. Come se non fosse mai esistito.
Anch'io, forse, nella mia piccola mente fanciulla prima e adolescente poi, avvertivo la necessità di partecipare alla rimozione di quel tormento, cercando di non dare troppa importanza a ciò che le vite di chi mi aveva preceduto, nella storia della famiglia, aveva dovuto sopportare.
Un atto dovuto, forse, furono tutti gli anni del silenzio.
O solo una mia resa codarda.
Era meglio non parlarne. E così se ne parlava poco.

Ma loro, i diretti interessati, i miei nonni, ogni tanto sottolineavano qualche attimo della vita quotidiana, che ci trovavamo a trascorrere insieme, con un'allusione, un breve intercalare o una narrazione tutto sommato più completa.
In quei momenti, noi che stavamo loro attorno ci concentravamo a provare ad immaginare quelle foschie, quel freddo, quella fame.

La fame, sì fu proprio quella parola che rimase impressa dentro di me, per lunghi anni. Quella fu l'immagine che dovette colpirmi, più di tutte le altre.
Tra tutte le brutture inaudite che la guerra porta con sé l'idea che si potesse arrivare a nutrirsi di bucce di patate, raccattate in occasioni fortunate, nascoste nelle tasche, fu quella che scosse di più le mie fantasie di fanciulla. Le immaginavo quelle bucce: mi pareva che danzassero attorno agli occhi di chi aveva dovuto ingoiarle. Le vedevo leggere, mentre ballavano, sì troppo leggere, come le calorie che offrivano a chi non aveva quasi più forze per consumarle.


Solo la terra pareva appesantire di tanto in tanto quella loro levità. Sì, la terra. Mi era stato spesso raccontato che le patate non venivano lavate, prima della sbucciatura. 
Quanto era buona pure la terra!

Nella mia mente avevo costruito l'immagine della guerra vissuta, me l'ero rappresentata geometricamente. Untriangolo, ecco che cos'era, nella mia testa di bambina, la guerra vissuta sul campo. Un soldato era posto su un vertice. Nelle altre due estremità vedevo la moglie del soldato e una montagnetta di bucce, zozze di terra.

                                            
***







Filomena...la mia Memena.
Da quanto la mia bocca non le muore più là dove so che lei la vuole?
Non conosco più il tempo, quel sottile passaggio di momenti in cui trascorre la vita. [cit.]

Nero di memoria, ad un anno dalla sua prima uscita.


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L'armistizio di Cassibile, 8 settembre 1943, segnò la fine delle ostilità fra l'Italia e le forze alleate.  Cosa accadde ai soldati italiani disseminati sui vari fronti? Ad essi fu chiesto di collaborare e  di continuare la guerra a fianco dei tedeschi. 

Drammatica fu la sorte di coloro che si opposero, dicendo "no!". Prigionia. Sofferenza. Morte. 

"Nero di memoria" è la storia di uno di quei soldati, Antonio, costretto a vivere da prigioniero, e di una delle tante donne italiane, Filomena

Antonio ora è un militare internato, un IMI. Nel campo di prigionia sopravvivere è difficile.

Antonio pensa alla sua donna, ai suoi figli. Ai due figli.
Filomena immagina il suo uomo, lo vuole vivo. 
Filomena custodisce i figli. I tre figli.







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