sabato 31 agosto 2013

Le mie donne sono sette. Le mie donne danzano e girano, in un movimento perpetuo, a cavallo dei secoli.
Le donne, le mie. E i loro sette giri.


"Sette giri di donna" è su Amazon

Un anno di self-publishing. Cosa ho imparato.


Quanto costa tenere uno scarabocchio nel tiretto? Dipende da quanto è grande la vostra casa e da chi vi gira dentro. Qualcuno potrebbe avere bisogno proprio di quel tiretto. 
Se questi rivendica con autorevolezza il possedimento di quello spazio, siete rovinati! Il vostro scarabocchio avrà il posto che merita: la soffitta. 

Uno scarabocchio in soffitta vive male. Lo sappiamo. Quanto è brulla una soffitta? Nessuno che venga mai a spolverare quelle quattro chiacchiere messe giù, con il sudore della stilografica o, peggio ancora, con la ginnastica compulsiva delle dita sulla tastiera. 
In soffitta la vostra creatura avrà vita grama. Invecchierà di solitudine. Anche perché, riconoscetelo, voi stessi vi dimenticherete di esservi sentiti un giorno scrittori, con la esse maiuscola o minuscola non importa, e di aver partorito una sequenza di segni riconoscibili ed universalmente intellegibili.

Non volendo scadere in un eccessivo pessimismo, un’altra possibilità potrebbe rivelarsi al povero scrittore con Esse incerta. 
Potrebbe accadere che chi divide con voi l’abitazione, ma pur la vita e la condotta, imbattendosi nel manoscritto che occupa abusivamente il tiretto a lui riservato, sia preso da un’improvvisa pietà e compassione per le vostre ambiziose prove di redazione e vi sussurri:
«Perché l’hai lasciato qui? Non devi! Non puoi! Tutti devono sapere. Tutti devono conoscere. Tutti sapranno riconoscerti.»

E voi, finalmente compiaciuti di esser stati con dignità considerati, quando già vi eravate rassegnati alla solitudine della genialità incompresa, lo bacerete con enfasi e con trasporto,  accompagnando i vostri abbracci con qualche timido:

 «Ma dai, ma ti pare.», «Ma dai, è una sciocchezza. Una prova di gioventù.»

Perché, detto tra noi, tutto quel che si scarabocchia con compulsione, nei momenti in cui vi capita di ascoltare estaticamente i dettami dell’ispirazione maestra, è sempre “una prova di gioventù”.
Anche se l’avete scritta dieci minuti fa.

L’arte non ammette umiltà. È arrivata l’ora di rendersene conto. Perciò, sicuri di essere stati almeno compresi dall'altra metà del vostro essere, vuoi perché davvero motivato a spronarvi nel cercare la giusta considerazione al vostro estro, vuoi perché davvero bisognoso di occupare il tiretto di cui sopra, vi concedete la meritata ricompensa alle vostre sacrosante velleità artistiche.

Ed eccovi sul motore di ricerca a digitare all'impazzata frasi del tipo “Pubblicare in cinque minuti”, “Pubblichiamo i nostri scritti”, “Pubblichiamoci allegramente”.
Lo so, è dura, ci son passata. Capisco.

E gira che ti ri-gira e leggi che si è fatto notte, arriverete infine ad occupare un agognato angolino di spazio Web. 
E lo vedrete lì il vostro eBook, nella vetrina dello store. Bello come il sole!
La copertina può essere migliorata, d’accordo. Ma quante pretese! In fondo è la vostra prima prova! Vi perfezionerete. Perché un vero autore self vuole prima di tutto questo: la perfezione.
Un self aspira ardentemente a rendere il suo prodotto preciso, completo, compiuto.
Non ci dorme la notte!

Quante notti ho trascorso alla ricerca di notizie utili, alla condivisione di emozioni digitali. Quanto sonno buttato nel Web.
È trascorso un anno dalla “mia prima volta” in modalità di auto-pubblicazione. E ancora non la dimentico.
Perché, si sa, la prima volta non si scorda mai!

In un anno ho imparato tante cose ma non voglio soffermarmi in questa sede, in questa pagina volevo dire, in dettagli di tipo tecnico ed in ragguagli di tecnicismo ad hoc. Quelli si trovano dappertutto. Ormai ne è pieno  il web!

Ciò che mi rimarrà per sempre sono sicuramente le emozioni derivanti dall'interazione con chi ha camminato insieme a me, o anche di fianco, condividendo i miei stessi compiacimenti, i dubbi e le incertezze che le nuove prospettive di pubblicazione ci hanno fatto conoscere. I colleghi del Self-Publishing!

Ho imparato che le parole non si buttano alla rinfusa. Ogni pensiero, soprattutto se condiviso sul web, deve essere attentamente valutato, soppesato, predisposto alla critica.
Ho imparato che non basta conoscere la grammatica, la sintassi. La penna non si ferma alle nozioni. La penna si esercita con le emozioni.
D'altronde ho pure appreso il contrario: senza uno stile buono e corretto è inutile dire qualcosa. Ma questo lo sapevamo già. Si spera.

Ho imparato che scriviamo non per raccontare storie. Noi scriviamo per inventar bugie. Ma non le possiamo metter lì, le bugie, alla mercé di chi saprebbe riconoscerle. No. Dobbiamo essere abili ad abbellirle, a imbellettarle. A farle vere, anche se veritiere non sono. Noi cerchiamo alibi che possano sembrar di ferro per nascondere panzane grossolane. Nascondiamole bene, però!

Insomma, ho sperimentato per un anno intero che, anche se impegnato a raccontare bugie e renderle favole che possano far sognare chi ci legge, suo buon cuore, chi scrive deve essere persona attenta, scrupolosa, diligente, leale ed onesta.

Viva l’autopubblicazione!

Concetta D'Orazio

venerdì 30 agosto 2013

Le conserve di pomodoro




«Le sete fiette le buttije?» ( Trad. «Le avete fatte le bottiglie?») 
Ritorno con la fantasia alla mia infanzia.
Nelle ultime settimane prima della riapertura delle scuole, quando gli adulti si incontravano e si salutavano, una delle domande di rito, un po' per consuetudine, un po' per dir qualcosa, era questa: «le avete fatte le bottiglie?» 
L’interrogativa non alludeva a strane pratiche di confezionamento dei contenitori di vetro. No! L’espressione fare le bottiglie era riferita alla tradizione che, in questo periodo dell’anno, vedeva impegnate tutte le famiglie del paese a fare, vale a dire preparare, le bottiglie, cioè le conserve di pomodoro, con il richiamo ai recipienti che maggiormente si utilizzavano per riporre tali conserve, le bottiglie di vetro, soprattutto i vuoti della birra. 

La domanda alternativa infatti era: «le sete fiette le pemmadore? » ( Trad. «Li avete fatti i pomodori?»).
Eh, sì per capire l’abruzzese è necessario tradurre il verbo fare, tenendo conto delle sue infinite accezioni. L’abruzzese fa tutto e dice che ha fatto tutto, senza perder tanto tempo nelle sfumature! 

Le sottigliezze di stile le lasciamo agli altri. Noi ora dobbiamo fare le bottiglie!
E così, dicevo, mentre noi bambini eravamo impegnati ad etichettare con nome e cognome i pastelli nuovi da mettere nell’astuccio per il nuovo anno scolastico, i nostri genitori, nonni e zii si avvicendavano nella delicata operazione della preparazione della salsa di pomodoro.
I ricordi dell'infanzia riaffiorano ogni tanto, in periodi particolari dell'anno, quasi a conservare la memoria di tempi ed usanze che hanno scandito la mia vita e quella di parecchi miei coetanei. Chi, come me, abitava in un piccolo paese o in campagna, ha la fortuna di rammentare, per averle vissute, tante tradizioni che si trasmettevano nelle famiglie, il più delle volte collegate con la conservazione dei prodotti della terra. 
La campagna sosteneva, dava da mangiare; i prodotti si potevano consumare nella stagione che li vedeva maturi, succosi, perfetti.

Quello che la terra dava fresco, però, doveva esser conservato anche per averlo poi, nei mesi invernali, pronto da utilizzare fuori stagione. Se tutto questo può sembrar naturale preoccupazione per chi la terra la lavorava e dunque produceva tanto, non era tuttavia insolito anche per chi, impegnato in altra occupazione, rispettava le scadenze dei cicli di campagna, per averle ereditate dalle generazioni precedenti. 

Insomma, a prescindere dal lavoro che gli adulti svolgevano, in ogni famiglia delle campagne, paesi e piccole cittadine abruzzesi, quand'era tempo di zucchine, melanzane, pomodori, uva ed olive, per qualche settimana ci si concentrava per provvedere alla raccolta e alla conservazione di questi frutti della terra. Chi non aveva un pezzetto di terra o un orticello di proprietà, si metteva a disposizione degli altri, offrendo il suo aiuto generalmente in cambio di vasetti, barattoli, bottiglie contenenti le provviste per l'inverno. 
Queste tradizioni non sono state dimenticate. No. Qualcuna è caduta un po’ in disuso, soprattutto per la mancanza di tempo degli adulti, dediti ad altro. La vendemmia e la vinificazione, ad esempio, sono oramai quasi un lusso riservato a pochi affezionati.
Tutte le altre tradizioni che derivano dalla esperienza agricola, la raccolta di melanzane, zucchine, peperoni, pomodori, olive e la successiva preparazione e conservazione sono ancor oggi pratiche molto diffuse nelle nostre terre abruzzesi.
Nella mia famiglia i pomodori (o le bottiglie che dir si voglia) si “fanno” ancora.

E ora passiamo alla preparazione.

Non vi dirò le quantità degli ingredienti, anche perché non le conosco. Come ben sapete, sto seguendo le orme della mia genitrice che mi ha sempre insegnato a “fare ad occhio” e a mettere dentro “quel che l’impasto – si tira –“. Semplice no?

Preparare le conserve è una procedura molto facile. L’unica difficoltà è data dalle grandi quantità di pomodori che ogni anno si hanno a disposizione dalla campagna: tutto va conservato. Non si butta niente.
Noi facciamo finta di voler preparare solo qualche barattolo (o bottiglia) di conserva.

Abbiamo i nostri pomodori, belli, succosi, maturi. Che dico maturi? Maturissimi, rosso sanguigno! Li dobbiamo mettere per una decina di minuti in acqua bollente per fare in modo che la buccia possa staccarsi.
Io, che uso metodi molto sbrigativi, butto i pomodori dentro un pentolone, facendoli bollire insieme all’acqua. 
Li levo quindi dall’acqua, dopo un po’ che è iniziata l’ebollizione.

Attenti, non ho ancora scritto che potete mettervi a pelare le pummarole! Quelle son bollenti. Vi siete ustionati il pollice e l’indice? Beh, aspettate un po’!
Quando i pomodori saranno arrivati a temperatura ambiente, togliete tutta la buccia e fate la polpa a pezzettini.
A questo punto è doveroso ricordare che a casa mia, dai tempi dei tempi, le conserve di pomodoro si dividono in conserve con “passato” e quelle con “pezzetti”. Nel primo caso è necessario frullare la polpa, nel secondo è sufficiente tagliarla in piccoli pezzi.
Gli attrezzi da avere a disposizione? Per chi deve realizzare quantità industriali di salsa, c’è in commercio il fior fiore di attrezzature. Per noi salsieri della domenica è sufficiente anche qualche piccola diavoleria elettrica che abbiamo in casa (robot). Io l’ultima volta utilizzai quel gingillo tritatutto che può essere inserito anche nei brodi.

A questo punto occorre mettere la salsa o i pezzetti nei contenitori che si è provveduto a sterilizzare in precedenza, i barattoli o le famose bottiglie. I primi sono ottimi per le conserve a pezzetti, le seconde per il passato.

Per insaporire la salsa è bene aggiungere qualche gambo di sedano spezzettato e qualche foglia di basilico.

Occorre ora far bollire i contenitori con la salsa per circa 20 minuti. Terminata la cottura, si devono far raffreddare i barattoli nella stessa acqua. Una volta eseguita quest’ultima operazione si può togliere le conserve dal pentolone e riporle nella credenza!

Concetta D'Orazio

Sulla tradizione delle conserve in Abruzzo ho scritto anche qui.







martedì 27 agosto 2013

Pasta alla chitarra per tutti!



Una serata estiva, una passeggiata fra le bancarelle di un mercatino di una sagra di paese. L'avevo vista parecchie volte, manufatto artigianale antico, spesso appesa a decorazione di rustiche pareti.

Ero convinta che di chitarra tagliapasta non ne facessero più, almeno non quelle davvero funzionanti all'uso. Sicuramente le nostre nonne ne avevano bisogno per ottenere gli spaghetti dalla sfoglia fatta a mano. Ma oggi? Che se ne fa una persona di una Chitarra per la pasta? La suona mentre l'acqua bolle? La strimpella sniffando il profumo di soffritto? Non serve più! La nonnapapera a manovella o quella splendida a motore l'hanno sostituita egregiamente,da tempo ormai.

E però l'ho incontrata: era lì sulla tavoletta della bancarella, quella dove vendono gli oggettini in legno fatti a mano. Quella dove puoi passare tranquille mezz'orette a gingillarti con inutili trita pepe, fingendoti interessata ad improbabili portatovaglioli decorati con margherite e con su scritto "Buon appetito".


Sì, giusto, proprio quella bancarella da dove di solito vi vergognate a staccarvi, senza aver acquistato nulla, dopo aver fatto settantadue domande inquisitorie alla signora che la gestisce.

Quella sera no, non mi sarei defilata con un imbarazzo alquanto evidente, per non aver trovato niente per cui valesse veramente spendere quei dieci - dodici euro. 
La chitarra era lì. Non potevo crederci.
Acquistarla? Mi sembrava non avessi desiderato altro nella vita!

«La prendo dopo. Quando ripasso.» Dissi entusiasta, e davvero convinta, alla signora.
«Sì, sì, come no. Ci vediamo.» Rispose ella con l'occhio stizzito di chi la sa lunga. Intuii anche un leggero monito di sfida, nel suo saluto di cortesia.

Non ne feci un dramma. Continuai la mia passeggiata per la festa, coronata da cenetta su panchina da birreria, allietata dalla frescura serale agostana e dalle note di un complessino di casa nostra. Nel senso che il complesso  avrebbe fatto bene a rimanere chiuso in casa! Anche a casa nostra, volendo...

«Eccomi, son tornata!» Sfoderai tutto quel sorriso che utilizzo di solito esclusivamente davanti allo specchio, in completa solitudine, per tenere monitorate le mie rughe incipienti, quanto incalzanti.

«Quante ne prende?» Non sembrava credere alle sue orecchie. Aveva finalmente trovato l'unica acquirente di attrezzo tagliapasta di quel giro di sagra. E dire che le feste erano iniziate dal giovedì.

«In che senso quante ne prendo?», risposi interdetta, ipotizzando che la donna mi rincalzasse con il solito leggero tono di sfida.
«Beh, non mi dica che ha mai trovato una chitarra simile da qualche parte nei dintorni. Vale la pena acquistarne qualcuna in più da regalare», pressava ella, incalzando.

«Me ne dia una. Al limite la presterò.» Tagliai corto, esultando per la vittoria.

Decisa. Precisa. Imballata nella scatola, la chitarra tagliapasta fu mia. E di nessun altro.

Sì, ma certo che l'ho provata! Il giorno successivo all'acquisto.
Risultato? Ottimo! Gli spaghetti sembran parlare da soli, scricchiolando nella bocca.

Subito una ricettina veloce:

per ogni uovo sono necessari 100 grammi di farina, un pizzico tanto di sale.
Generalmente si prepara un uovo per ogni commensale.
Per quattro persone, quindi, occorre mettere 4 uova e 400 grammi di farina più una ventina da spargere allegramente sulla sfoglia. Totale: 420 grammi.

La tradizione vorrebbe che la sfoglia da posizionare sulla chitarra venga realizzata rigorosamente a mano.
La tradizione appunto.
In genere io però la tradizione non la invito mentre sono ai fornelli e quindi essa non mi vede.
Con la nonnapapera la sfoglia è velocissima, ancor di più se si dispone, come la sottoscritta, di un motorino elettrico da applicare alla suddetta nonnap.

Occorre realizzare delle sfoglie non molto sottili (numero 4 della nonnap). Attenzione a non farle asciugare (seccare) troppo, pena la rottura della sfoglia, una volta posizionata sulla chitarra.

Dopo aver adagiato i vostri bei rettangolini di sfoglia (uno alla volta) sulle corde della chitarra, è necessario passare sopra il matterello fino a quando la pasta sarà tagliata dalle suddette corde. 
Si consiglia di premere con decisione il matterello piuttosto che lasciarlo scivolare, rischiando di ritrovarsi la pasta spezzata a metà.
Gli spaghetti alla chitarra possono essere conditi a piacimento con ragù di carne o con pesce.
Buon appetito!


venerdì 23 agosto 2013

Ah le donne!

Ho letto questo libro nei momenti di relax vacanziero: pensavo fosse un impegno poco gravoso, come la sinossi e la copertina lasciavano immaginare. Non mi sbagliavo: l'autrice ci espone con tono ironico, spesso sarcastico, quelle che sono le situazioni tipo in cui noi donne diamo il meglio di noi stesse, seguendo percorsi e circostanze che ormai ci caratterizzano quali lo shopping, le diete, gli appuntamenti, il matrimonio e tanti altri. La lettura è stata piacevole, scorrevole, ma questo impegno poco oneroso non deve trarre in inganno: il contenuto non è mai troppo semplice né troppo semplicistico. L'autrice ha la capacità di far riflettere il lettore sulle qualità buone o cattive delle donne, dandogli la possibilità di immedesimarsi nei giri di pensiero che ognuna di noi si trova a fare nei vari momenti importanti o meno della sua esistenza. Chi scrive sa bene come utilizzare l'importante strumento che ha disposizione, l'ironia.
Molto gradevole ed appropriata la forma; ho apprezzato anche la divisione in capitoli o sezioni per separare i vari argomenti, preceduti da citazioni ad hoc.
Consiglio questo libro non solo ad un pubblico maschile, che potrà trovare valide indicazioni per la "sopravvivenza", ma anche ad un pubblico femminile, che saprà rivenire la sincerità delle informazioni!




giovedì 1 agosto 2013