Quelle recriminazioni mi si insinuano nella coscienza, fra la brezza di un'estate ballerina. Subdole, si miscelano alla malinconia e al canto démodé delle cicale, in questa stagione malandata.
Le voci di rimbrotto mi dicono che è giunto, infine, il momento. È tempo di posare la penna sulla verginità della carta bianca.
Ma sei pigra? Quante volte te lo dobbiamo ripetere che è ora di fermare lo sguardo sul foglio, di accordare vocali e consonanti, di mantecare le assonanze?
Quelle lagnanze si fanno sempre più insistenti, mi tartassano il cervello. I sensi di colpa s'impadroniscono di me.
Provo allora a sistemare le idee, a pensare le trame, tanto per imbrogliare un po' le carte.
Mi faccio coraggio, nella mia afflizione: non sono io la responsabile dell'indolenza che mi coglie nella penna. La malinconia del tempo vuoto fa da compagna all'assenza di valide intuizioni.
Cosa potrei scrivere? Quale storia potrei inventare?
Non ne ho!
Non ne immagino.
È naturale. Mi discolpo.
È tempo perso. Mi avveleno.
Ritorno così a strofinar quella penna sul foglio, pregando in cuor mio che esaurisca presto tutto l'inchiostro.
Senza nero, è chiaro, non s'imbratta. E io potrei aver la giustificazione alla mia ignavia, facendo ricadere le cause su fatti esterni a me e non prevedibili.
Il colore, tuttavia, è ancora copioso, aspetta solo di essere riversato.
Per tutta risposta e quasi per vendetta, mi metto a spremere la penna in su e in giù, componendo parole strane, mal accordate per verbi e congiunzioni.
Una pantomima senza senso e manchevole di emozioni è quel che mi risulta da questo sforzo straordinario ma di poca intelligenza.
Strappo le pagine, ammassando il foglio imberbe.
Mi riposo. Rimando. Mi consolo.
Riprendo in mano il tempo per dirmi che ce n'è.
Mi metto il cuore in pace.
Domani.
Concetta D'Orazio
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