giovedì 5 settembre 2013

Voglio anch'io un'intervista!


Oggi vanno tanto di moda le interviste ai cosiddetti scrittori emergenti.
Quanti scrittori emergenti! Il web è pieno di scrittori che emergono.
Ma emergono da dove?
Avranno fatto naufragio nell'ormai mio noto mare del Web, avranno.
Mi sono sempre chiesta in quale limbo catartico debbano essere costretti a soggiornare questi scrittori, per un determinato periodo di tempo, commisurato, chissà, al numero degli avverbi in "mente" che hanno utilizzato nelle loro opere di una vita precedente.
Insomma, il fatto è chiaro: c'è qualcuno che  riesce a venire a galla e qualcun altro, preferibilmente un collega, che deve notificare al pubblico diversamente leggente questa emersione.
Ed ora eccoli qui gli scrittori affioranti, che, con la bocca finalmente a portata di ossigeno, fanno grandi sospiri per riprender fiato. 
E sono talmente contenti di riuscire infine a galleggiare, di essersi or dunque ritrovati, che si abbracciano tra di loro e si parlano, si raccontano. 
Ci prendono così tanto gusto ci prendono, che si menzionano l'un l'altro, intervistandosi.
Eh, sì, perché tra naufraghi ci si aiuta. E certo! Se non ci si aiuta fra di noi!
Così qualcuno la prima volta ha avuto quell’originaria idea: l’intervista!
Non sappiamo chi fu. Il fatto si perde nei tempi dei tempi. Certo, mi piacerebbe conoscerlo e chiedergli: 

ma perché ti è venuta in mente? Avresti potuto pensare, che so, ad un fantastico raduno in un fast-food del centro, molto economico, molto veloce ecco. Oppure si sarebbe potuto organizzare un sit-in Biblioteca Nazionale, che fa molto intellettuale. E invece no, tu hai architettato un artifizio diabolico: l'intervista!

Riflettendoci, sia chiaro, non è poi una cattiva idea. Si ha l'occasione di mettere nero su bianco, o bianco sul nero, a seconda dell'illuminazione dello schermo, il vissuto dello scrittore che altrimenti andrebbe perso. 
La cosa, poi, è semplice, veloce.
La cosa, poi, è facilmente pilotabile. Ma questo non lo penserà nessuno.
Insomma si procede all'abboccamento virtuale, concedendosi un margine temporale di preavviso e di "studio delle carte".

Sì, allora, oggi a chi tocca? Facciamo così, inizio io. Ho delle domande. Vedessi che domande!
Tu domani farai le tue. Oggi dai le risposte. 

E tu li vedi che si affannano, gli scrittori, a predisporre lunghi ed interessantissimi questionari, con tanto di quiz numerati, alla stregua di un formulario prestampato da far opportunamente girare nel Web.
E gli emergenti si trovano dunque a studiare, a proporre, a limare. E fanno test su test di preparazione. Perché la cosa è seria, lo si sappia.
Sono convinta che quelli più bravi abbiano frequentato anche qualche corso di perfezionamento post lauream.

Dico la verità, questo mio scritto nasce da un sincero moto di invidia: io li vedo tutti che si intervistano fra di loro, che si scrivono, che si chiamano, che si piacciano e si condividono. 
E mai nessuno che m'invita.
A loro chiedo, ai miei colleghi: che cosa ho che non va bene? Guardate che se mi dite quel che devo rispondere, io rispondo. Se mi indicate con precisione quel che devo domandare, io domando.
E diamine. Sono capace, cosa credete?
Cosa sono queste discriminazioni?
Anch'io ho un cuore. Lo sapete?
Anch'io ho una copertina. E una sinossi. E un report da controllare!

Ma forse è meglio che me ne faccia una ragione. Gli scrittori scrivono e, pertanto, sono autorizzati a comporre chilometri e chilometri di interviste.
Scrittore è una parola troppo grande. Scrittore è una parola troppo importante.
Me ne faccio una ragione. Mi rassegno.

Però la sogno sempre. La sogno sempre la mia intervista.
Nella solitudine dei miei pensieri mi ritrovo ad immaginare le domande. A predisporre in silenzio le risposte. Le provo, fra me e me, le seleziono. Le cambio. Le correggo.
A volte mi metto anche a girare sui blog e sulle pagine web degli emergenti. Leggo quel che scrivono. Sono fantastici. 
E intanto, nel mio piccolo, vagheggio anch'io  la mia modesta intervista.
Mi dico: cosa mi chiederebbero? E provo a farmi le domande. E provo a darmi le risposte.
Avete presente quando si deve preparare un esame? Ecco, così faccio io, cercando di indovinare la sorte.
La desidero. La desidero tanto la mia intervista che sono arrivata addirittura ad immaginare la mise per quel giorno: un gessatino blu e décolleté con tacco modesto.
Ecco, lo so,  lo so che non mi vedrebbe nessuno perché l'intervista è rigorosamente virtuale!
Ma potrei sempre auto-scattarmi una foto con la web cam del pc e postarla, ad attestar l'evento.
Lasciatemi sognare!


Concetta D'Orazio

mercoledì 4 settembre 2013

Crostata alla crema di limone



Voglio fare un dolce ma...Preparerei volentieri un dolce però...Dite la verità, non mentite: quante volte, prigioniere dell'estro culinario, in preda all'eccitazione davvero estatica, pochi minuti prima di indossare il grembiulino con la foto del leone con su il fumetto "Sono io il tuo micio", desistete dall'obbedire al vostro genio creativo, con le scuse più improbabili. Mi manca la panna...Avrei dovuto acquistare il latte condensato... Il vino d'Arabia? Dove lo prendo? E dopo queste tristi considerazioni, tirerete un sospiro che vorreste far credere di mestizia ma che, in realtà, voi sole conoscete come di sollievo per avervi esentato dalla fatica di imbrattare di farina la vostra cucina, sollevandovi dal gravoso incarico. Vi sentirete, allo stesso tempo, in pace con la coscienza, per averci provato, e soddisfatte di potervi recare alla vostra scrivania per accendere finalmente il pc!
Ecco, carissime, esiste un dolce che è possibile realizzare velocemente e con pochi ingredienti, prestandosi ad esser farcito con le più impensabili creme ed i più altrimenti improponibili ripieni.
Lo so, mi state odiando. Lo so, dovete spegnere quel pc.
Pazienza, sono qui per scrivere. E voi d'altronde sarete arrivate qui, pronte per cucinare.
Al lavoro!
Ah, avete capito che il dolce di cui stiamo parlando è la crostata, vero?
D'altronde il titolo di questo nostro post non lascia adito a fraintendimenti.
Il lavoro prevede dapprima la realizzazione di una base sui cui poi mettere la farcitura.
Io non ho una ricetta "standard" per la base ma cambio la posologia degli ingredienti a seconda del risultato che voglio ottenere (base morbida, secca, alta, minima, ecc.)


Ingredienti per la pasta base

300 gr. di farina
150 gr. di zucchero
2 uova
125 gr. di burro
mezza bustina di lievito per dolci
un pizzico di sale


Ingredienti per la farcitura


2 uova intere

5 cucchiai di zucchero
1 bicchiere e 1/2 di latte
5 cucchiai di farina
Succo di due limoni (senza semi) + buccia grattugiata di mezzo limone

Preparazione



Come già sapete, preparare la base per la crostata è molto semplice. Bisogna far ammorbidire il burro ed impastarlo insieme a tutto il resto (uova, farina, zucchero, lievito e pizzico di sale). 
Dopo aver ottenuto la vostra bella palletta morbida, abbiate cura di riporla per una mezz'oretta in frigo, in maniera che diventi più dura ed omogenea.
Voi così avrete tutto il tempo di accendere il forno a 180°; grado in più, grado in meno, pensateci voi che conoscete il vostro forno. Non dicono tutti così i cuochi e le cuochesse che insegnano a cucinare? Lo dico anch'io che cuochessa non sono.
Avrete anche il tempo di imburrare ed infarinare la teglia che avete scelto per cuocere la vostra torta.
Ora dovete preparare la farcia. Iniziate con lo sbattere le uova (io le ho messe intere) con lo zucchero. Aggiungete il latte, la farina, il succo di limone e fate cuocere, girando con una frusta, per una decina di minuti. Attenti a non far diventare la crema troppo densa: in forno poi si trasformerebbe in un mattone. E questo non è bello! E neppure buono! 
Togliete la pasta dal frigo, disponetene un tre quarti nella teglia, bucherellandola leggermente. Mettete quindi la crema. Utilizzate il quarto di pasta per formare delle striscioline da applicare sula superficie della torta, a mo' di reticolato. Infornate per 40 minuti. Fate raffreddare e coprite di zucchero a velo!

sabato 31 agosto 2013

Le mie donne sono sette. Le mie donne danzano e girano, in un movimento perpetuo, a cavallo dei secoli.
Le donne, le mie. E i loro sette giri.


"Sette giri di donna" è su Amazon

Un anno di self-publishing. Cosa ho imparato.


Quanto costa tenere uno scarabocchio nel tiretto? Dipende da quanto è grande la vostra casa e da chi vi gira dentro. Qualcuno potrebbe avere bisogno proprio di quel tiretto. 
Se questi rivendica con autorevolezza il possedimento di quello spazio, siete rovinati! Il vostro scarabocchio avrà il posto che merita: la soffitta. 

Uno scarabocchio in soffitta vive male. Lo sappiamo. Quanto è brulla una soffitta? Nessuno che venga mai a spolverare quelle quattro chiacchiere messe giù, con il sudore della stilografica o, peggio ancora, con la ginnastica compulsiva delle dita sulla tastiera. 
In soffitta la vostra creatura avrà vita grama. Invecchierà di solitudine. Anche perché, riconoscetelo, voi stessi vi dimenticherete di esservi sentiti un giorno scrittori, con la esse maiuscola o minuscola non importa, e di aver partorito una sequenza di segni riconoscibili ed universalmente intellegibili.

Non volendo scadere in un eccessivo pessimismo, un’altra possibilità potrebbe rivelarsi al povero scrittore con Esse incerta. 
Potrebbe accadere che chi divide con voi l’abitazione, ma pur la vita e la condotta, imbattendosi nel manoscritto che occupa abusivamente il tiretto a lui riservato, sia preso da un’improvvisa pietà e compassione per le vostre ambiziose prove di redazione e vi sussurri:
«Perché l’hai lasciato qui? Non devi! Non puoi! Tutti devono sapere. Tutti devono conoscere. Tutti sapranno riconoscerti.»

E voi, finalmente compiaciuti di esser stati con dignità considerati, quando già vi eravate rassegnati alla solitudine della genialità incompresa, lo bacerete con enfasi e con trasporto,  accompagnando i vostri abbracci con qualche timido:

 «Ma dai, ma ti pare.», «Ma dai, è una sciocchezza. Una prova di gioventù.»

Perché, detto tra noi, tutto quel che si scarabocchia con compulsione, nei momenti in cui vi capita di ascoltare estaticamente i dettami dell’ispirazione maestra, è sempre “una prova di gioventù”.
Anche se l’avete scritta dieci minuti fa.

L’arte non ammette umiltà. È arrivata l’ora di rendersene conto. Perciò, sicuri di essere stati almeno compresi dall'altra metà del vostro essere, vuoi perché davvero motivato a spronarvi nel cercare la giusta considerazione al vostro estro, vuoi perché davvero bisognoso di occupare il tiretto di cui sopra, vi concedete la meritata ricompensa alle vostre sacrosante velleità artistiche.

Ed eccovi sul motore di ricerca a digitare all'impazzata frasi del tipo “Pubblicare in cinque minuti”, “Pubblichiamo i nostri scritti”, “Pubblichiamoci allegramente”.
Lo so, è dura, ci son passata. Capisco.

E gira che ti ri-gira e leggi che si è fatto notte, arriverete infine ad occupare un agognato angolino di spazio Web. 
E lo vedrete lì il vostro eBook, nella vetrina dello store. Bello come il sole!
La copertina può essere migliorata, d’accordo. Ma quante pretese! In fondo è la vostra prima prova! Vi perfezionerete. Perché un vero autore self vuole prima di tutto questo: la perfezione.
Un self aspira ardentemente a rendere il suo prodotto preciso, completo, compiuto.
Non ci dorme la notte!

Quante notti ho trascorso alla ricerca di notizie utili, alla condivisione di emozioni digitali. Quanto sonno buttato nel Web.
È trascorso un anno dalla “mia prima volta” in modalità di auto-pubblicazione. E ancora non la dimentico.
Perché, si sa, la prima volta non si scorda mai!

In un anno ho imparato tante cose ma non voglio soffermarmi in questa sede, in questa pagina volevo dire, in dettagli di tipo tecnico ed in ragguagli di tecnicismo ad hoc. Quelli si trovano dappertutto. Ormai ne è pieno  il web!

Ciò che mi rimarrà per sempre sono sicuramente le emozioni derivanti dall'interazione con chi ha camminato insieme a me, o anche di fianco, condividendo i miei stessi compiacimenti, i dubbi e le incertezze che le nuove prospettive di pubblicazione ci hanno fatto conoscere. I colleghi del Self-Publishing!

Ho imparato che le parole non si buttano alla rinfusa. Ogni pensiero, soprattutto se condiviso sul web, deve essere attentamente valutato, soppesato, predisposto alla critica.
Ho imparato che non basta conoscere la grammatica, la sintassi. La penna non si ferma alle nozioni. La penna si esercita con le emozioni.
D'altronde ho pure appreso il contrario: senza uno stile buono e corretto è inutile dire qualcosa. Ma questo lo sapevamo già. Si spera.

Ho imparato che scriviamo non per raccontare storie. Noi scriviamo per inventar bugie. Ma non le possiamo metter lì, le bugie, alla mercé di chi saprebbe riconoscerle. No. Dobbiamo essere abili ad abbellirle, a imbellettarle. A farle vere, anche se veritiere non sono. Noi cerchiamo alibi che possano sembrar di ferro per nascondere panzane grossolane. Nascondiamole bene, però!

Insomma, ho sperimentato per un anno intero che, anche se impegnato a raccontare bugie e renderle favole che possano far sognare chi ci legge, suo buon cuore, chi scrive deve essere persona attenta, scrupolosa, diligente, leale ed onesta.

Viva l’autopubblicazione!

Concetta D'Orazio

venerdì 30 agosto 2013

Le conserve di pomodoro




«Le sete fiette le buttije?» ( Trad. «Le avete fatte le bottiglie?») 
Ritorno con la fantasia alla mia infanzia.
Nelle ultime settimane prima della riapertura delle scuole, quando gli adulti si incontravano e si salutavano, una delle domande di rito, un po' per consuetudine, un po' per dir qualcosa, era questa: «le avete fatte le bottiglie?» 
L’interrogativa non alludeva a strane pratiche di confezionamento dei contenitori di vetro. No! L’espressione fare le bottiglie era riferita alla tradizione che, in questo periodo dell’anno, vedeva impegnate tutte le famiglie del paese a fare, vale a dire preparare, le bottiglie, cioè le conserve di pomodoro, con il richiamo ai recipienti che maggiormente si utilizzavano per riporre tali conserve, le bottiglie di vetro, soprattutto i vuoti della birra. 

La domanda alternativa infatti era: «le sete fiette le pemmadore? » ( Trad. «Li avete fatti i pomodori?»).
Eh, sì per capire l’abruzzese è necessario tradurre il verbo fare, tenendo conto delle sue infinite accezioni. L’abruzzese fa tutto e dice che ha fatto tutto, senza perder tanto tempo nelle sfumature! 

Le sottigliezze di stile le lasciamo agli altri. Noi ora dobbiamo fare le bottiglie!
E così, dicevo, mentre noi bambini eravamo impegnati ad etichettare con nome e cognome i pastelli nuovi da mettere nell’astuccio per il nuovo anno scolastico, i nostri genitori, nonni e zii si avvicendavano nella delicata operazione della preparazione della salsa di pomodoro.
I ricordi dell'infanzia riaffiorano ogni tanto, in periodi particolari dell'anno, quasi a conservare la memoria di tempi ed usanze che hanno scandito la mia vita e quella di parecchi miei coetanei. Chi, come me, abitava in un piccolo paese o in campagna, ha la fortuna di rammentare, per averle vissute, tante tradizioni che si trasmettevano nelle famiglie, il più delle volte collegate con la conservazione dei prodotti della terra. 
La campagna sosteneva, dava da mangiare; i prodotti si potevano consumare nella stagione che li vedeva maturi, succosi, perfetti.

Quello che la terra dava fresco, però, doveva esser conservato anche per averlo poi, nei mesi invernali, pronto da utilizzare fuori stagione. Se tutto questo può sembrar naturale preoccupazione per chi la terra la lavorava e dunque produceva tanto, non era tuttavia insolito anche per chi, impegnato in altra occupazione, rispettava le scadenze dei cicli di campagna, per averle ereditate dalle generazioni precedenti. 

Insomma, a prescindere dal lavoro che gli adulti svolgevano, in ogni famiglia delle campagne, paesi e piccole cittadine abruzzesi, quand'era tempo di zucchine, melanzane, pomodori, uva ed olive, per qualche settimana ci si concentrava per provvedere alla raccolta e alla conservazione di questi frutti della terra. Chi non aveva un pezzetto di terra o un orticello di proprietà, si metteva a disposizione degli altri, offrendo il suo aiuto generalmente in cambio di vasetti, barattoli, bottiglie contenenti le provviste per l'inverno. 
Queste tradizioni non sono state dimenticate. No. Qualcuna è caduta un po’ in disuso, soprattutto per la mancanza di tempo degli adulti, dediti ad altro. La vendemmia e la vinificazione, ad esempio, sono oramai quasi un lusso riservato a pochi affezionati.
Tutte le altre tradizioni che derivano dalla esperienza agricola, la raccolta di melanzane, zucchine, peperoni, pomodori, olive e la successiva preparazione e conservazione sono ancor oggi pratiche molto diffuse nelle nostre terre abruzzesi.
Nella mia famiglia i pomodori (o le bottiglie che dir si voglia) si “fanno” ancora.

E ora passiamo alla preparazione.

Non vi dirò le quantità degli ingredienti, anche perché non le conosco. Come ben sapete, sto seguendo le orme della mia genitrice che mi ha sempre insegnato a “fare ad occhio” e a mettere dentro “quel che l’impasto – si tira –“. Semplice no?

Preparare le conserve è una procedura molto facile. L’unica difficoltà è data dalle grandi quantità di pomodori che ogni anno si hanno a disposizione dalla campagna: tutto va conservato. Non si butta niente.
Noi facciamo finta di voler preparare solo qualche barattolo (o bottiglia) di conserva.

Abbiamo i nostri pomodori, belli, succosi, maturi. Che dico maturi? Maturissimi, rosso sanguigno! Li dobbiamo mettere per una decina di minuti in acqua bollente per fare in modo che la buccia possa staccarsi.
Io, che uso metodi molto sbrigativi, butto i pomodori dentro un pentolone, facendoli bollire insieme all’acqua. 
Li levo quindi dall’acqua, dopo un po’ che è iniziata l’ebollizione.

Attenti, non ho ancora scritto che potete mettervi a pelare le pummarole! Quelle son bollenti. Vi siete ustionati il pollice e l’indice? Beh, aspettate un po’!
Quando i pomodori saranno arrivati a temperatura ambiente, togliete tutta la buccia e fate la polpa a pezzettini.
A questo punto è doveroso ricordare che a casa mia, dai tempi dei tempi, le conserve di pomodoro si dividono in conserve con “passato” e quelle con “pezzetti”. Nel primo caso è necessario frullare la polpa, nel secondo è sufficiente tagliarla in piccoli pezzi.
Gli attrezzi da avere a disposizione? Per chi deve realizzare quantità industriali di salsa, c’è in commercio il fior fiore di attrezzature. Per noi salsieri della domenica è sufficiente anche qualche piccola diavoleria elettrica che abbiamo in casa (robot). Io l’ultima volta utilizzai quel gingillo tritatutto che può essere inserito anche nei brodi.

A questo punto occorre mettere la salsa o i pezzetti nei contenitori che si è provveduto a sterilizzare in precedenza, i barattoli o le famose bottiglie. I primi sono ottimi per le conserve a pezzetti, le seconde per il passato.

Per insaporire la salsa è bene aggiungere qualche gambo di sedano spezzettato e qualche foglia di basilico.

Occorre ora far bollire i contenitori con la salsa per circa 20 minuti. Terminata la cottura, si devono far raffreddare i barattoli nella stessa acqua. Una volta eseguita quest’ultima operazione si può togliere le conserve dal pentolone e riporle nella credenza!

Concetta D'Orazio

Sulla tradizione delle conserve in Abruzzo ho scritto anche qui.







martedì 27 agosto 2013

Pasta alla chitarra per tutti!



Una serata estiva, una passeggiata fra le bancarelle di un mercatino di una sagra di paese. L'avevo vista parecchie volte, manufatto artigianale antico, spesso appesa a decorazione di rustiche pareti.

Ero convinta che di chitarra tagliapasta non ne facessero più, almeno non quelle davvero funzionanti all'uso. Sicuramente le nostre nonne ne avevano bisogno per ottenere gli spaghetti dalla sfoglia fatta a mano. Ma oggi? Che se ne fa una persona di una Chitarra per la pasta? La suona mentre l'acqua bolle? La strimpella sniffando il profumo di soffritto? Non serve più! La nonnapapera a manovella o quella splendida a motore l'hanno sostituita egregiamente,da tempo ormai.

E però l'ho incontrata: era lì sulla tavoletta della bancarella, quella dove vendono gli oggettini in legno fatti a mano. Quella dove puoi passare tranquille mezz'orette a gingillarti con inutili trita pepe, fingendoti interessata ad improbabili portatovaglioli decorati con margherite e con su scritto "Buon appetito".


Sì, giusto, proprio quella bancarella da dove di solito vi vergognate a staccarvi, senza aver acquistato nulla, dopo aver fatto settantadue domande inquisitorie alla signora che la gestisce.

Quella sera no, non mi sarei defilata con un imbarazzo alquanto evidente, per non aver trovato niente per cui valesse veramente spendere quei dieci - dodici euro. 
La chitarra era lì. Non potevo crederci.
Acquistarla? Mi sembrava non avessi desiderato altro nella vita!

«La prendo dopo. Quando ripasso.» Dissi entusiasta, e davvero convinta, alla signora.
«Sì, sì, come no. Ci vediamo.» Rispose ella con l'occhio stizzito di chi la sa lunga. Intuii anche un leggero monito di sfida, nel suo saluto di cortesia.

Non ne feci un dramma. Continuai la mia passeggiata per la festa, coronata da cenetta su panchina da birreria, allietata dalla frescura serale agostana e dalle note di un complessino di casa nostra. Nel senso che il complesso  avrebbe fatto bene a rimanere chiuso in casa! Anche a casa nostra, volendo...

«Eccomi, son tornata!» Sfoderai tutto quel sorriso che utilizzo di solito esclusivamente davanti allo specchio, in completa solitudine, per tenere monitorate le mie rughe incipienti, quanto incalzanti.

«Quante ne prende?» Non sembrava credere alle sue orecchie. Aveva finalmente trovato l'unica acquirente di attrezzo tagliapasta di quel giro di sagra. E dire che le feste erano iniziate dal giovedì.

«In che senso quante ne prendo?», risposi interdetta, ipotizzando che la donna mi rincalzasse con il solito leggero tono di sfida.
«Beh, non mi dica che ha mai trovato una chitarra simile da qualche parte nei dintorni. Vale la pena acquistarne qualcuna in più da regalare», pressava ella, incalzando.

«Me ne dia una. Al limite la presterò.» Tagliai corto, esultando per la vittoria.

Decisa. Precisa. Imballata nella scatola, la chitarra tagliapasta fu mia. E di nessun altro.

Sì, ma certo che l'ho provata! Il giorno successivo all'acquisto.
Risultato? Ottimo! Gli spaghetti sembran parlare da soli, scricchiolando nella bocca.

Subito una ricettina veloce:

per ogni uovo sono necessari 100 grammi di farina, un pizzico tanto di sale.
Generalmente si prepara un uovo per ogni commensale.
Per quattro persone, quindi, occorre mettere 4 uova e 400 grammi di farina più una ventina da spargere allegramente sulla sfoglia. Totale: 420 grammi.

La tradizione vorrebbe che la sfoglia da posizionare sulla chitarra venga realizzata rigorosamente a mano.
La tradizione appunto.
In genere io però la tradizione non la invito mentre sono ai fornelli e quindi essa non mi vede.
Con la nonnapapera la sfoglia è velocissima, ancor di più se si dispone, come la sottoscritta, di un motorino elettrico da applicare alla suddetta nonnap.

Occorre realizzare delle sfoglie non molto sottili (numero 4 della nonnap). Attenzione a non farle asciugare (seccare) troppo, pena la rottura della sfoglia, una volta posizionata sulla chitarra.

Dopo aver adagiato i vostri bei rettangolini di sfoglia (uno alla volta) sulle corde della chitarra, è necessario passare sopra il matterello fino a quando la pasta sarà tagliata dalle suddette corde. 
Si consiglia di premere con decisione il matterello piuttosto che lasciarlo scivolare, rischiando di ritrovarsi la pasta spezzata a metà.
Gli spaghetti alla chitarra possono essere conditi a piacimento con ragù di carne o con pesce.
Buon appetito!


venerdì 23 agosto 2013

Ah le donne!

Ho letto questo libro nei momenti di relax vacanziero: pensavo fosse un impegno poco gravoso, come la sinossi e la copertina lasciavano immaginare. Non mi sbagliavo: l'autrice ci espone con tono ironico, spesso sarcastico, quelle che sono le situazioni tipo in cui noi donne diamo il meglio di noi stesse, seguendo percorsi e circostanze che ormai ci caratterizzano quali lo shopping, le diete, gli appuntamenti, il matrimonio e tanti altri. La lettura è stata piacevole, scorrevole, ma questo impegno poco oneroso non deve trarre in inganno: il contenuto non è mai troppo semplice né troppo semplicistico. L'autrice ha la capacità di far riflettere il lettore sulle qualità buone o cattive delle donne, dandogli la possibilità di immedesimarsi nei giri di pensiero che ognuna di noi si trova a fare nei vari momenti importanti o meno della sua esistenza. Chi scrive sa bene come utilizzare l'importante strumento che ha disposizione, l'ironia.
Molto gradevole ed appropriata la forma; ho apprezzato anche la divisione in capitoli o sezioni per separare i vari argomenti, preceduti da citazioni ad hoc.
Consiglio questo libro non solo ad un pubblico maschile, che potrà trovare valide indicazioni per la "sopravvivenza", ma anche ad un pubblico femminile, che saprà rivenire la sincerità delle informazioni!




giovedì 1 agosto 2013

lunedì 29 luglio 2013

Pallotte caçe e ove

Giusto per rimaner freschi, un po' di fritto ci vuole! Scherzi a parte, per noi forti e gentili abruzzesi quando c'è da gustare le nostre amate pallotte caçe e ove non c'è tempo che tenga.

Le pallotte sono nostre e si mangiano d'inverno, calde, magari affogate in un ragù divino, ma sono buonissime anche d'estate, da gustare a temperatura ambiente e per accompagnare piatti più freddi.

La verità è che le Pallotte caçe e ove ci identificano come il Montepulciano e gli arrosticini.

La caratteristica principale che rende buone le pallotte è il formaggio. Il rigatino è quello comunemente usato per queste polpette ma, anche in questo caso, le scuole di pensiero sono molte.

C'è chi al rigatino preferisce il pecorino che lascia alle pallotte quel gusto forte in gola.

C'è chi al rigatino e pecorino preferisce il parmigiano che lascia però alle polpette un sapore poco definito, a mio dire.
Il parmigiano, in ogni caso, deve essere accompagnato anche da altro tipo di formaggio.

C'è chi alterna o mette insieme i formaggi, a seconda delle provviste che ha nel frigorifero.
Chi scrive è nata e cresciuta con l'odore in cucina di polpette fatte con il formaggio rigatino. Lo preferisco.





Ingredienti

3 etti di formaggio rigatino

2 piccole fette di pane raffermo

1 bicchiere di latte

3 uova

aglio

olio di oliva

Preparazione

Dopo aver messo precedentemente a macerare il pane raffermo in un po' di latte, disporlo in una ciotola insieme al formaggio e alle uova, ad un paio di spicchi d'aglio macerati. La scelta se mettere o meno l'aglio dipende dai gusti dei commensali. Si ricordi che non tutti lo gradiscono.

Impastare energicamente e formare delle polpette. Bisogna impastare tutto molto bene per evitare che le polpette possano disfarsi una volta buttate nell'olio bollente.

Versare abbondante olio in una casseruola antiaderente e far raggiungere ad esso  una temperatura molto elevata. Adagiare quindi le polpette nella padella, evitando di rigirarle fino a quando avranno raggiunto nell'olio la consistenza che permette al formaggio di non sfaldarsi. Solo un olio caldissimo garantirà che la polpetta non "si sgonfi" una volta tolta dalla padella.

Far sgocciolare le polpette su carta assorbente.

Le pallotte  caçe  e ove vengono da sempre adoperate per insaporire gustosissimi ragù.




domenica 21 luglio 2013

Incontro tra poveri.


Povero n.1: - Piacere, sono povero.


Povero n.2: - Piacere! Che coincidenza, sono povero anch'io!


Povero n.1: - Eh, sì, che coincidenza!? Ma tu sei povero "assoluto" o povero "relativo"?


Povero n.2: - Io sono povero relativo. E tu?


Povero n. 1: - No, io sono un povero ASSOLUTO! Di antica famiglia e tradizione. 


Povero n. 2: - Ah! Allora tanto di cappello!

Mi trovo ad immaginare scene come questa, da quando ho scoperto che, anche fra i poveri, esiste una classifica. 

Se siamo arrivati a fare una ripartizione di merito anche per le disgrazie, significa che siamo proprio arrivati.
E finiremo pure per far carriera.


Concetta D'Orazio

domenica 14 luglio 2013

Quel che è accaduto ad Isabella. Nessuno deve saperlo.

Isabella e il suo segreto. Un segreto da tener nascosto. Un segreto da eliminare.
"Sette giri di donna" è su Amazon a meno di un euro






sabato 13 luglio 2013

La tendina nera del posto telefonico pubblico.



Ho sentito spesso persone della generazione prima della mia raccontare che un tempo, la sera, si andava tutti al bar del corso o a casa di qualche famiglia benestante del paese a guardare la televisione. Questo non era però un evento ordinario. Andare a vedere la televisione si qualificava come accadimento considerevole che si poteva ripetere solo in occasione di serate importanti, quelle in cui trasmettevano il "Festivàl" (sì, accentato) o qualche puntata speciale di "Lascia o raddoppia".
Questa era la "televisione in casa d'altri". E nessuno si preoccupava di non averla in casa propria.

Il desiderio di possesso di quell'elettrodomestico non sembrava, a quei tempi, turbare angosciosamente le esistenze dei nostri genitori e delle loro famiglie. Allora.
Esistevano dei privilegi, la televisione, il telefono.
Solo alcuni potevano usufruirne liberamente.
Altri dovevano aspettare l'invito, nel caso di un programma in tv, o il bisogno, nel caso di una telefonata urgente.

E non devo risalire a generazioni prima della mia per ricordare il Posto Telefonico Pubblico.
Io stessa rammento quando qualche adulto della mia famiglia mi portava con sé "a telefonare".
Un'esperienza tra il mistico devozionale e curiosità scientifica. La cabinetta telefonica era ospitata in una casa normale. La cabinetta con la tendina nera. Perché poi era nera? Non si doveva mica assistere a delle proiezioni là dentro!
Forse la tendina nera, o al limite bordeaux molto scuro, era posta lì a sottolineare la natura se vogliamo straordinaria e trascendentale dell'evento.
Non so perché ma quella pezzo di stoffa incuteva in me una sorta di rispetto estremo per l'atto che l'adulto che accompagnavo stava per compiere, telefonare, e per il mezzo che si utilizzava per eseguire quella funzione, il telefono.

Sì, ho proprio scritto "funzione": io, bambina, consideravo il momento dell' "andare a telefonare" al pari di una funzione religiosa, di quelle importanti però, che so, come la messa di Pasqua o quella di Natale. E sicuramente le messe di rilievo, nel corso dell'anno liturgico, superavano di gran lunga le telefonate che i miei genitori allora facevano.
La tendina nera o bordeaux poi contribuiva ad accrescere l'importanza di tipo spirituale dell'evento, ricordando sicuramente quella del confessionale.

Più tardi a quell'inutile separé di stoffa si sostituì una porta pesante, molto più adatta ad isolare le chiacchiere dei "telefonanti".
La cabinetta del Posto Telefonico Pubblico, in seguito, fu sostituita,  dalla Signora Cabina Telefonica, posta in uno spiazzo all'esterno, in genere nel luogo più frequentato del paese, sempre però in un angolo alquanto discreto.
E da quel momento finii di essere semplice accompagnatrice di adulti telefonanti per diventare teenager telefonante anch'io, con i miei gettoni e le mie duecento lire.

Intanto quello strano aggeggio con la rotellina spaziale si  era già posizionato sul comò del corridoio di gran parte delle famiglie italiane. Ma noi, adolescenti del tempo, preferivano le chiacchiere nella cabina, intervallate dal "tonf tonf" del gettone che scendava o dallo "stic stic", nel caso stessimo utilizzando la duecentolire.

Nei paesi, le cabine non sembravano affollate. Non era così in città.
Ricordo i tempi di Roma.
Nella capitale e nelle grandi città esistevano dei veri e propri piccoli quartieri. Vi trovavano alloggiamento più cabine. Un paesotto di cabine, insomma. Accadeva spesso di dover fare la fila. L'attesa trascorreva fra il maneggiamento nervoso dei gettoni e un'orecchiata indifferente a quel che stava dicendo il telefonante prima di noi. Non perché avessimo veramente voglia di  ascoltare le sue  parole ma più che altro per ammazzare il tempo. E man mano che il tempo passava, ancor più lentamente se il telefonante di turno era impegnato in una chiamata urbana, lasciavamo cadere lentamente i gettoni uno sull'altro, dalla mano destra alla sinistra e viceversa, sperando che il "tonf tonf" o lo "stic stic" o ancora il "tonf stic" potessero far capire a quello prima di noi che era tempo di riagganciare.

Ecco, ora scrivo questi miei  ricordi con il pc, con l'orecchio attento al segnale dei messaggini del cellulare, quasi che quel che ho raccontato fosse riferito a tempi che non ho vissuto. E mi  chiedo: come abbiamo fatto a sopravvivere allora?
Lo crederanno i nostri figli che siamo sopravvissuti?
E cosa ricorderanno loro quando avranno la nostra età?
- Ricordi quando andavamo sullo spiazzo davanti al comune per agganciare il segnale wii-fii gratuito?
 -Ricordi quando siamo rimasti senza linea adls per due giorni? Da incubo!


Concetta D'Orazio

sabato 6 luglio 2013

Ines e le sue donne

Ines. Chi è Ines? Quali voci sente muoversi nella sua pancia?
Chi sono quelle donne?
Perché parlano lingue diverse?
Perché sono vestite in maniera così eterogenea?
Quante sono quelle donne?
Cosa vogliono da lei?
Ines le ascolterà. Darà voce alla sua pancia.
Le sue mani e la sua tastiera.
Ines e i suoi calzettoni.
E poi Iolanda. E poi Iulia e Atte. E poi Adele, Dora, Isabella.
Sette giri di donna.



Sulla ragione sottile e la disponibilità ingenua

Considerando questioni spensierate, mi è capitato a volte di chiedermi: cosa vorrei se potessi avere subito quel che desidero?

Non preferirei sicuramente la soddisfazione della vanità esterna. Non disprezzo abiti, trucchi, calzature, questo no, ma mai, nemmeno negli anni miei più giovani, ne ho fatto proposito essenziale.

Mi piacerebbe invece accontentare la vanità più interiore, quella che si nasconde nella ragione sottile, che a volte si mostra, beffarda ed infingarda, ma che è restia a dialogar con tutti.
È difficile, lo ammetto, esaudire le sue richieste. Tante volte mi indigno con lei, giudicandola a guisa di persona molesta, e finisco per dolermene con essa stessa.

Ho intrapreso ormai una lotta che pare iniqua: io mi faccio accondiscendente, essa, la ragione, si fa maldicente. Io cerco di giudicare tutto il prossimo con animo benigno, pietoso e tenero, essa, la ragione, mi fa vedere i difetti e, quel che più è terribile, le debolezze altrui. Io mi dico "Ma dai, ma in fondo è tranquillo!" lei mi risponde "Ma sì, è un tipo da nulla".

La lotta continua ad ogni ora, ad ogni incontro. Io finisco per soccombere alla mia ragione sottile.

E non ne esco felice, ma sicuramente, alla fine, essa, la ragione, mi ha salvata!
Cosa vorrei se potessi avere subito quel che desidero?
Vorrei che io riuscissi a parlare e a interagire con alcune persone, prestando voce alla mia ragione logica e sottile. Non alla mia disponibilità.


Concetta D'Orazio

venerdì 28 giugno 2013

Sullo stile di scrittura

Approfitto dell'occasione offertami da una chiacchierata con un amico che, lui lo sa, è per me sempre pungolo intelligente ad approfondire talune questioni inerenti allo stile personale di scrittura. 

Leggere è un piacere. Leggere è anche un impegno. Chi si accosta ad un libro lo fa, deve farlo, con consapevole responsabilità di essere, per tutto il tempo della durata della lettura, l'unico arbitro a poter giudicare quel che ha sotto gli occhi, apprezzando talune traiettorie di stile, disdegnandone altre.

Ripeto, chi legge si assume la responsabilità di far scivolare le pagine, a stampa o virtuali non importa, sulla propria pelle, accogliendone o meno la giusta temperatura.

Chiarita la premessa, sono convinta, con estrema caparbietà, che non ci siano regole generali da applicare al modo in cui si scrive, men che meno da seguire nell'ordinare il proprio pensiero. Ed anche lo stile personale non può essere sempre catalogato in rigide schedature ma deve essere aggiustato, tenendo presente numerose variabili: l'argomento, l'ambientazione, i personaggi. 
Ed anche tante altre questioni.

Chi ha detto che la lettura deve scorrere sempre velocemente? Chi lo dice che deve essere sempre snella? 
In un romanzo d'azione è chiaro che la paratassi debba essere preferita alla ipotassi; dove c'è azione e continuo cambio di ambientazione e situazioni ben vengano le frasi poste sullo stesso piano, preferibilmente brevi. 
Se ci sofferma invece ad analizzare i movimenti interiori delle anime dei personaggi anche la penna avverte la necessità di continui ghirigori e tenute placide di stile. Qui la ipotassi è d'obbligo.

Ogni maniera di scrittura è buona se sapientemente calibrata, tenendo presente gli innumerevoli punti vista!


Concetta D'Orazio

mercoledì 26 giugno 2013

Abbiamo scritto una pagina di storia!

Un anno esatto è trascorso da quando, nel giugno del 2012, mi aggiravo nella Rete alla ricerca di informazioni su come fare per pubblicare un libro online, in totale autonomia.
Pubblicare un libro? Da soli? Senza casa editrice??
Un anno fa pareva una follia. Almeno lo era per me, abituata a voltar pagina, strofinando carta, con quel famoso profumo che tutti glorificano, ma che ormai pare davvero obsoleto e inflazionato!
Avevo la mia "roba" riposta in un cassetto. Poche poesie, ma buone, accatastate vicino alla biancheria, nel famoso cassetto appunto...
Ero davvero in confusione, avevo bisogno di notizie certe, precise.
Iniziai a girovagare per la Rete, fino a quando riuscii a fare la mia  prima pubblicazione.
Nonostante questo, tuttavia, nella nuova dimensione da auto-pubblicata, avvertivo una certa solitudine, una self-solitudine. Una solitudine fai da te, insomma.
E nel mio  isolamento mi sentivo in totale autonomia. Solitaria autonomia.
Mi resi subito conto che esser riuscita a mettere online la mia raccolta di poesie non era sufficiente. Se l'avessi lasciata lì, nello store, senza accompagnarla con una considerevole opera di promozione, non avrei ottenuto niente, tanto valeva lasciare i miei versi nel cassetto, vicino alle magliette della salute.
Promozione? Non avevo la ben che minima esperienza in questo campo. Proprio io che rifuggo da ogni realtà commerciale, men che meno quando richieda una qualsiasi forma di esibizione pubblica.
Ma la pubblicità andava fatta. Era chiaro, andava fatta.
E non solo per vendere. Per carità, non avevo grandi ambizioni a riguardo. Far leggere il proprio libro ad un numero considerevole di persone sembrava, e sembra, assolutamente necessario per avere indietro una qualche forma di apprezzamento o anche di critica. Non funziona così anche nell'editoria canonica?
Mi rimisi in viaggio, attraversando i meandri della Rete ed iniziai a cercare comunità, forum, gruppi in cui ci fosse qualche auto-pubblicato che mi tenesse compagnia, con cui potessi scambiare informazioni, dubbi ed esperienze.
Fu allora che venni a conoscenza di un gruppo Facebook, creato da un self come me e scoprii che di self come noi ce n'erano tanti. Provammo  a contarci ed arrivammo ad  identificarci nei "primi cento autori self. I pionieri".
Scoprimmo pure di avere un nome, un'identità, e ci dicemmo tutti: autori indie!
Ora la butto banalmente: sembrava ieri...ed è passato un anno! E altro che cento autori! Oggi non li contiamo più.
Ma quelli che allora erano i primi cento, si sono ritrovati, si sono aiutati. Quell'originario gruppo è cresciuto talmente tanto da esser stati costretti a chiudere e ripartire da capo.
In un solo anno quante cose abbiamo imparato insieme. Abbiamo scoperto così tanto che non basterebbe un anno a riepilogarlo!
Potrei azzardare un sintesi: abbiamo capito come si fa, cioè come si procede tecnicamente per mettere un libro online. Ci siamo confrontati su questioni inerenti all'editing, all'impaginazione, alla correzione. Abbiamo mostrato le nostre copertine, bocciandole o promuovendole, incitandoci a fare meglio.
E poi siamo passati ad affrontare la delicata questione della promozione: abbiamo compreso l'importanza del saper gestire le nostre presentazioni online, la necessità di promuovere prima di tutto la nostra persona e quindi le nostre opere.
Ripeto: non basterebbe un anno.
Oggi quel gruppo è composto da scrittori self che hanno raggiunto  una certa maturità professionale e che si confrontano pressoché quotidianamente, aiutandosi e sostenendosi anche nella promozione.
Abbiamo scritto una pagina di storia.
Buon compleanno e grazie a tutti.